𝐕𝐈𝐈𝐈

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In quel periodo si poteva notare nel cielo e nella temperatura dell'aria il timido avvento della primavera. Nonostante l'aria fredda riuscisse ancora a congelare le fonti d'acqua, il gelo si era fatto decisamente meno aggressivo dell'inverno che si apprestava a cedere il posto alla stagione più mite. Gli animi di tutti sembravano riscaldati dal sole, e nuovamente rifioriti. Il calore inaspettato che riempiva l'aria di quel freddo inverno era portato dalle imminenti celebrazioni dei Lupercalia. Fearghal aveva appreso dell'importanza di questi festeggiamenti sin dal suo arrivo a Roma: tuttavia mai aveva compreso il modo forsennato con cui, in particolare i membri delle gentes più illustri si preparavano all'avvenimento: il primo anno della sua presenza a Roma, in quanto semplice prigioniero, ostaggio avrebbe detto, non era minimamente contemplata, dopo aver raggiunto la domus di Publio Valerio, invece, aveva ottenuto il permesso, nonché un velato obbligo, a presenziare alla festa. Il soldato spingeva chiaramente per fare accettare all'unico gallico del manipolo di stranieri, e sicuramente il più temibile, i costumi della sua Roma: voleva essere sicuro che, una volta pronto alle armi, avrebbe fronteggiato la sua stessa patria se fosse stato necessario, tra le linee di legionari. L'elvetico aveva potuto ammirare una sontuosità estranea alle celebrazioni rituali delle sue montagne, nelle feste dei patrizi. Ricordava bene quei due giorni di celebrazioni, in quelli chiamati dies nefasti, culmine dell'inverno, in cui venivano svolti sacrifici animali in onore di Lupercus, il Fauno protettore degli ovili dai lupi, e portatore di fertilità. Aveva scortato la famiglia di Gaia verso la grotta del Lupercale, per assistere al rituale sacrificio: da quando era a Roma, mai si era sentito più a casa di quel momento. Alla mente erano ritornati i sacrifici che venivano offerti agli Dei dai druidi elvetici, in particolare per attirare il favore durante i momenti pre-bellici. L'attenzione di tutti i presenti si era fissata immediatamente sulla sua figura, così diversa dalle altre che gremivano la caverna. Publio Valerio aveva subito notato il disagio che traspariva dagli occhi azzurri del gallico, aveva posto con fermezza una mano sulla sua spalla e lo aveva condotto a prendere posto appena vicino a lui. Fearghal aveva notato la presenza di giovani, presumibilmente nobili, vestiti di pelli animali, guidati da quello che avrebbe chiamato magister, scortare delle capre all'interno del monte, dove si trovavano tutti. Aveva intuito si trattasse dei sacerdoti della divinità celebre in quei giorni, infatti, alla luce delle torce che rendevano possibile la vista, complici del sole che faceva capolino dall'antro, avevano afferrato dei pugnali con cui si apprestavano a tagliare la gola agli animali, divenuti offerta del sacrificio. Non c'erano parole possibili per esprimere ai cittadini di Roma cosa fosse il sacrificio per un proveniente dalla Gallia. Il sangue era un punto cardine delle celebrazioni nelle terre all'estremo Nord delle province, atto al favore degli dei guerrieri, o ai protettori dei raccolti e della fertilità del suolo. Il sangue inebriava tutti, che iniziavano i festeggiamenti nello stesso momento in cui ne veniva sparsa una goccia: a Roma tutto sembrava diverso. Il sacrificio rituale generava in più di qualcuno ribrezzo, che lo portava a distogliere lo sguardo per non essere testimoni della vita tolta a quegli animali, del sangue che si accumulava in quelle ciotole di legno e che poi macchiava leggermente la fronte dei giovani sacerdoti, ad opera del Magister che conferiva, tramite quel gesto, tutti i poteri soprannaturali che erano loro attribuiti in quei giorni. Gli era stato detto che le donne romane si facessero percuotere le mani dai giovani in quei giorni di festa, in auspicio di fertilità, tuttavia a questo non aveva mai assistito. 

Mentre aspettava quei giorni seduto ai piedi di un ulivo, leggendo grandi opere latine allo scopo di rendere la conversazione in quella lingua impeccabile, assisteva con celata ilarità ai preparativi di Livia Giulia. Aveva commissionato una stoffa meravigliosa, rossa come il sangue, e aveva fatto cucire dalle sue ancelle un nuovo abito cerimoniale, sbottando di tanto in tanto circa i dettagli che non erano di suo gradimento. Sentiva la voce di Gaia nella domus, Gaia, che non aveva più visto la notte per circa due lune, e che raramente lo degnava della sua presenza di giorno, camminando lentamente per il podere della famiglia. Sembrava decisamente più stanca, un cambiamento radicale considerata l'energia che riusciva a trasmettere nonostante le precedenti notti insonni trascorse assieme all'elvetico. Il centurione si era lasciato sfuggire, in uno dei rari momenti di confidenza, che non passava giorno ormai, in cui Gaia non fosse debole e non rifiutasse il cibo, ma lui non poteva dimostrarsi preoccupato più del dovuto, nonostante il desiderio di parlarle e cercare di comprendere il motivo dei suoi malesseri lo corrodesse dall'interno come un potente veleno. Livia Giulia, in quel frangente, stava cercando di convincere la figlia a farsi ricavare dalla stoffa avanzata un abito nuovo simile al suo, e le proteste della giovane facevano inevitabilmente sorridere il gallico, un sorriso che non era destinato a durare, vista la sagoma che si palesava sull'uscio della porta, imbronciata dalla recente discussione con la madre. Gaia aveva preso a camminare a passi incerti per il giardino, i capelli che le ricadevano morbidi sulle spalle e una tunica di ottima fattura, ma logorata dal tempo le fasciava il corpo. Fearghal era rimasto incantato alla vista di quella bellezza che riusciva a trasparire nonostante il pallore, gli occhi verdi cerchiati dalle occhiaie e gli abiti non esattamente sontuosi che la giovane domina indossava quel giorno. Si era alzato per salutare la giovane, nel modo ufficiale che riservava alla luce del giorno, mentre lei gli faceva un cenno con la mano, e un sorriso compariva sul suo volto. Lo aveva raggiunto e aveva ripreso a portare quei passi lenti e a tratti dalle sembianze vacillanti a qualche metro dal gallico, conversando sulle imminenti celebrazioni che si sarebbero svolte. Fearghal teneva l'occhio vigile sulla romana, che sembrava così intenzionata a lasciarsi cadere, che non si trovò impreparato a doverla sorreggere quando se ne presentò l'occasione. Era riuscito a sorreggere perfettamente il corpo esile della ragazza, si era slacciato il mantello che gli copriva le spalle e lo aveva adagiato a terra, per poi coricare sul giaciglio di fortuna Gaia, che riapriva gli occhi scusandosi dell'inconveniente. Livia Giulia era accorsa alla scena, congedandosi dopo poco per tornare a governare la casa, incaricando il gallico di badare momentaneamente alla figlia. Gaia aveva provato a rialzarsi, ma l'elvetico l'aveva tenuta al suolo con la mano sulla sua spalla. Aveva percorso il corpo della giovane, che ormai conosceva bene, con lo sguardo, e l'aveva osservata allentare la cintura che indossava. Solo in quel momento, quando il tessuto era ricaduto morbido sulla pelle della romana aveva potuto notare con certezza un rigonfiamento sul ventre di lei. Aveva poggiato una mano su di esso, e improvvisamente il sogno di una notte di due mesi prima si era tornato a palesare, ad uso di profezia, alla sua mente.

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