𝐈𝐕

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Non era raro che Gaia, nelle sue scappatelle, decidesse di desistere. Spesso giungeva presso la stanza riservata al ragazzo celtico, sentiva dei lamenti, poi spesso un urlo spaventoso si faceva  largo e fendeva l'aria, facendo ritirare in fretta e furia la giovane, temendo di essere scoperta. La prima volta che era successo, infatti, era stato il padre in persona ad assicurarsi che la sua casa e tutti gli inquilini fossero al sicuro. In seguito aveva conversato fino all'alba con Fearghal, per poi rassicurare la moglie, che quella notte era corsa armata nella stanza della figlia per proteggerla, e la figlia stessa che fossero fenomeni normali e ripetibili: a quanto pare, evinse sarcastico in un latino piuttosto duro, il gallico aveva i suoi incubi, demoni di un passato non troppo lontano, che tornavano a tormentarlo col calare della notte. Spesso, la ragazza, si ritrovava ad essere curiosa riguardo a ciò che era la quotidianità per il nobile elvetico, ma non azzardava chiedere o proferire parola inerente, aspettava che fosse lui a parlare con lei, una nobile romana, un'amica, la sua amante ed innamorata - almeno, così era arrivata a definirsi -, in modo spontaneo. 

Una nottata tranquilla pareva avanzare, eliminando il sole e confinandolo sotto la linea dell'orizzonte. Dopo la cena usuale, in casa di Gaia, Publio Valerio si era diretto all'esterno della domus per discutere il risultato dell'ultima campagna militare con un superiore, congedando il gallico e sollecitandolo a ritirarsi, lasciando libere di ricreare un perfetto ordine le donne di casa. La ragazza non aveva udito il padre rientrare, nonostante il passo deciso dell'uomo lasciasse presagire qualche brutta notizia all'orizzonte. La conversazione si era accesa non molto dopo che la ragazza si era ritirata per la notte: i due uomini, Publio Valerio Corvino, sovrintendente della centuria che vantava la temibile Legio Martia, condotta dallo stesso, in una tenuta più informale del solito, e un superiore che non si era mai presentato con il suo nome completo, ma che la guerra aveva insignito di un cognomen rappresentativo: Bellicus. L'uomo, sovrintendente del manipolo di cui faceva parte anche la legione comandata da Valerio, si era distinto per il suo valore nelle campagne che comprendevano diversi movimenti bellici ai danni delle popolazioni della Gallia Cisalpina, che aveva portato alla formazione di una provincia di cittadini romani , anche se lui stesso si premurava di precisare l'inferiorità delle genti del Nord. I due avevano discusso una massiva perdita di soldati, avvenuta nelle recenti campagne militari, quindi della scarsità di uomini tornati, nonostante le vittorie. La situazione che versava nella zona della Gallia Cisalpina recava particolari preoccupazioni: gli Elvezi, con una furia senza eguali, erano soliti ad insidiare quelle zone, in qualche, per il momento non troppo frequente e duraturo, assedio. Serviva reclutare chiunque avesse le giuste abilità per militare tra le file di Roma. Quando nelle stanze era calato il silenzio più totale, solo i lamenti dettati dagli incubi dell'elvetico erano recati dal vento fino alla stanza di Gaia, missiva che giungeva esclusivamente con il favore dell'oscurità. La ragazza si era svegliata poco prima, strofinandosi gli occhi stanchi con le mani, con l'obiettivo di ritornare a distinguere chiaramente, per quanto il buio potesse concedere, il mondo che stava attorno, quando un flebile lamento si era fatto strada tra i corridoi della domus, fino alle sue orecchie: così decise di alzarsi per assicurarsi che il ragazzo che ospitava in casa sua stesse bene. Dei passi felini la portarono davanti alla stanza, che si stagliava davanti ai suoi occhi, vista la porta che evidentemente era stata chiusa male. Poteva distinguere chiaramente la sagoma del celtico che giaceva agitata, i capelli biondi di Fearghal che rilucevano della pallida luce della luna. I passi silenziosi avevano portato la giovane nobile fino ai piedi del giaciglio del ragazzo, così rapidamente che lei avrebbe potuto giurare di non essersene accorta. L'agitazione del giovane pareva aumentare, in un crescendo piuttosto inquietante, per questo motivo, Gaia, aveva posto cautamente la mano sulla spalla dello straniero, con il solo scopo di svegliarlo da quel sonno così travagliato. Il suo cuore era parso fermarsi quando il ragazzo aveva riaperto gli occhi, e con uno scatto fulmineo e colmo di furia l'aveva atterrata. I suoi occhi, del colore del cielo limpido parevano glaciali, tormentati e furiosi. Dal canto suo, quei suoi occhi così chiari non vedevano più la Roma in cui viveva da anni, niente della casa di Gaia gli pareva familiare, nulla gli sembrava non essere ricoperto di sangue. Lui stesso ne era ricoperto, dopo uno strenuo combattimento: gli pareva di avere i vestiti a brandelli, la carne ferita dai fendenti delle spade, le ultime forze che lo stavano lentamente abbandonando. Il cuore gli batteva ad un ritmo accelerato e, nella sua testa, risuonava un antico monito tramandatogli dal padre, ma che appariva come inciso nella storia dell'umanità, nelle rocce delle sue montagne, nel popolo elvetico intero: "Uccidi o cadi". Gaia, ai suoi occhi, non era più l'esile ragazza romana che amava, si presentava ai suoi occhi come un soldato armato, pronto a ferirlo mortalmente. Mentre lui si occupava del nemico, costringendolo al suolo, l'ultima cosa vista dai suoi occhi azzurri era un'esecuzione. Un ragazzo, di qualche anno più anziano di lui, trafitto da una spada, direttamente nel punto dove si trovava il suo cuore. Prima di riprendere completamente la lucidità, una parola, un nome, uscì strozzato dalla sua bocca: "Brennos".

Dopo aver celato per qualche istante gli occhi stravolti al mondo, Fearghal li aveva riaperti scoprendo una Gaia tremante, seduta suolo e illuminata dalla poca luna che riusciva a raggiungere la piccola stanza. Spaventato, si era inginocchiato di fronte alla ragazza, e con delicatezza aveva controllato che non fosse ferita, da parte sua, Gaia, attanagliata dalla paura cercava di ritrarsi dal tocco del gallico. I brividi percorsero la schiena di entrambi, quando un membro della servitù bussò alla porta chiedendo se tutto andasse bene. Se fosse entrato, se avesse visto Gaia lì, in una tenuta tutt'altro che formale, sicuramente avrebbe avvisato il padre, o almeno così pensava la giovane. Provvidenzialmente, la Fortuna aveva provveduto a mantenere il servo fuori dalla porta chiusa, nascondendo la presenza della romana ai suoi occhi. "Certo, va tutto bene, ho avuto un incubo." si affrettò a riferire alla voce senza volto che lo aveva interpellato, mentre Gaia tratteneva un sorriso. L'unica risposta riservata al ragazzo era stata una lamentela borbottata mentre, presumibilmente, la voce si recava a portare la notizia a Publio Valerio: "Gallici... capaci solamente di "combattere" e di aver paura.", aveva detto marcando con particolare enfasi colma di sarcasmo sprezzante le parole "Gallici" e "combattere". Pur nella sua posizione di schiavo, era comunque romano, quindi si sentiva in pieno diritto di riservare il suo odio contro i tanto biasimati Celti. La giovane nobile, intanto rialzatasi, era prossima ad uscire dalla porta per rimproverare, quantomeno, la maleducazione del servo, solo la mano dell'elvetico posta sulla sua spalla a fermare l'irruenza che caratterizzava il suo carattere. "Aspetta che se ne sia andato, poi usciamo, che ne dici?" aveva proferito sottovoce, in un latino quasi perfetto. La ragazza aveva annuito, per poi aspettare qualche interminabile minuto e sgattaiolare silenziosamente verso il podere del padre. Seduti sotto un albero, abbastanza lontano da occhi indiscreti, Gaia, poggiando la mano su quella del gallico azzardò una domanda: "Chi è Brennos?", mentre il dolore attanagliava nuovamente il cuore di Fearghal. "Mio fratello." sussurrò quasi impercettibilmente, prima che gli occhi gli si riempissero di lacrime.

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