𝐈𝐗

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Chiunque avesse guidato il suo sguardo verso la luce che proveniva dall'esterno avrebbe giurato che nient'altro che il sole dei più caldi giorni del Quintilius stava splendendo all'esterno. L'unica cosa che avrebbe generato qualche dubbio a riguardo era l'entità della luce che, fredda e spettrale, illuminava ogni cosa. Non vi erano rumori riconducibili alla vita umana, tutto era avvolto in un silenzio, scandito spesso dal gracchiare dei corvi. A Roma non ne aveva visti molti, generalmente, come ricordava Publio Valerio, si raccoglievano nei campi di battaglia per cibarsi dei cadaveri, assieme ai lupi oppure ad altri rapaci. Uno di quegli uccelli si era avvicinato alla finestra del gallico, disturbando il suo sonno. Aveva provato a scacciarlo, tuttavia il messaggero di Lugus, come l'avrebbero definito nella sua Elvezia, aveva tranquillamente fatto ritorno dopo poco, riprendendo la sua irritante canzone. Fearghal si era alzato dal letto, uscendo dalla domus, e trovandosi davanti ad uno spettacolo surreale. La luna splendeva più fulgida del sole, in alto nel cielo, mantenendo una posizione di zenit costante. Il corvo che aveva udito, rappresentava una piccolissima parte tra tutti quelli che volavano in cielo e quelli che, invece, erano poggiati a terra. Il podere del padre di Gaia sembrava essere stato dato alle fiamme, vista la terra nera, che sembrava coperta di fuliggine, e i tronchi mozzati irregolarmente degli ulivi. Un solo albero, altissimo, sembrava essere sopravvissuto a quella ignota catastrofe, raccogliendo tra i suoi rami moltissimi dei corvi che avevano disturbato la quiete di quella strana notte. Il gallico vi si era avvicinato, generando la fuga degli animali, che avevano lasciato scoperto alla vista del giovane un nido, dove pareva esserci un pulcino, visto il verso che proveniva da lì. La sua mano aveva viaggiato fino a raggiungere il nido, cercando di prelevare l'uccellino, che aveva dato per orfano, ma un altro dei corvi aveva intercettato la sua mano e l'aveva scacciata, occupandosi poi di saziare il piccolo. Il piumaggio del corvo adulto era quanto di più particolare si fosse mai visto: bianco e splendente più della luna. Aveva gracchiato con ferocia, riportando il gallico alla realtà, in cui si era risvegliato nel buio della sua stanza, con i pensieri confusi e il ricordo vago del sogno che lo aveva svegliato a quell'orario.

Tutto si era fatto più vivido alla sua mente in quel preciso istante in cui aveva sfiorato il ventre della ragazza, e Gaia aveva provato ad alzarsi in fretta, per evitare di sottoporsi alle domande di cui già entrambi conoscevano le risposte. La testa, tuttavia, continuava a girarle e a costringerla in movimenti più lenti di quanto lei avrebbe voluto, quindi trovandosi a spostarsi di poco rispetto al gallico che le stava a fianco. "Gaia... aspetti un bambino..." aveva proferito il ragazzo in un tono che aveva più la connotazione di delineare un'affermazione piuttosto che di porre una domanda. "Una bambina, credo." aveva sussurrato la giovane, toccandosi la pancia, anche lei aveva avuto qualche parvenza di quella che si poteva definire profezia che, tuttavia, aveva ricacciato nei meandri più reconditi della sua mente, evitando di pensare che la situazione potesse essere reale. Poi erano iniziati i suoi malesseri e le preoccupazioni di Livia Giulia, che l'avevano gettata in uno stato di preoccupazione costante: evitava di lasciare le sue stanze per la maggior parte del tempo, per evitare di fronteggiare i suoi genitori. La famiglia di Gaia non aveva mai parlato apertamente di matrimonio con lei, ma negli ultimi anni era la stessa madre a fare pressioni su Publio Valerio per combinare per la figlia ribelle un matrimonio conveniente e degno al rango della loro gens. La ragazza ben sapeva che una sua eventuale scelta sarebbe stata fittizia, anche il matrimonio dei genitori era stato combinato, anche se dall'esterno non si sarebbe mai detto: sembravano uniti e innamorati più di quando si erano conosciuti. Gaia non si era mai preoccupata di una sua eventuale scelta, considerando suo padre come il suo più grande alleato, che l'avrebbe consigliata ma anche ascoltata, non obbligandola ad un'unione non voluta anche da lei. Tuttavia, ben sapeva che, se avesse confessato il suo amore per Fearghal al padre, non lo avrebbe mai accettato: classe sociale che non si era ancora elevata dalla schiavitù, non essendo ancora entrato a far parte ufficialmente delle linee dell'esercito di Roma, e, soprattutto, si parlava di un gallico, un nemico. Tutto questo, però, non la faceva rimpiangere le sue scelte, né provava vergogna per colui di cui si era innamorata, né rimpiangeva di non aver agito in modo diverso. Era conscia, tuttavia, che prima o poi avrebbe dovuto confessare il fatto, e che ciò avrebbe generato conflitti nella sua famiglia e nella sua vita. Aveva deciso di confessare tutto successivamente alle celebrazioni dei Lupercalia, così da poter affrontare il resto della gravidanza col supporto dei genitori, e non dovendo faticare a cercare di nascondere la vita che cresceva in lei, con scarsi risultati. Fearghal nel mentre non poteva crederci, l'aveva abbracciata, guardandosi prima intorno per evitare di farsi notare dai genitori di lei. Nella sua testa avrebbe potuto portarla con lui in Elvezia un giorno, e forse avrebbe avuto l'approvazione del centurione, per l'ottenimento di una proficua alleanza che avrebbe reso la vita di Roma meno difficile ai confini, che gli elvetici minacciavano continuamente. Da quando era giunto a Roma, difficilmente ricordava un giorno più felice di quello. Aveva promesso velocemente alla romana il suo supporto incondizionato, per poi voltarsi all'udire la voce della domina che richiamava l'attenzione della figlia e la invitava a rientrare in casa per finire i preparativi per le imminenti festività che si sarebbero svolte nei successivi tre giorni. La ragazza aveva obbedito, seguendo la madre all'interno dell'abitazione. La madre l'aveva fermata davanti alla finestra che dava sul giardino, da dove entrava la luce del giorno, per farle ammirare un vestito confezionato per lei, a sorpresa. Livia Giulia le faceva notare, col favore dei raggi del sole, il meraviglioso colore rosso della stoffa pregiata da cui aveva ricavato anche il suo abito, catturando l'attenzione della ragazza parlando degli intarsi preziosi che aveva fatto applicare all'altezza delle spalle e che sfavillavano come fiamme in una notte senza luna, colpiti dalla luce. Aveva insistito perché la ragazza lo provasse, dandoglielo in mano, assieme ad una nuova cintura impreziosita dagli stessi dettagli che presentava la tunica. Lei si era recata nelle sue stanze e aveva indossato l'abito, notando con timore il tessuto che le stava attillato nella zona della pancia, che ormai entrava a fatica nei suoi vecchi abiti, da cui doveva aver fatto prendere le misure dalle ancelle. La madre la attendeva nel corridoio, aspettandosi di vedere la figlia più bella che mai, trovandola invece impacciata e che accennava un sorriso incerto. Con lei, attendeva anche una delle ancelle che lo aveva realizzato, perché la nobile la istruisse su eventuali modifiche da apportare. Il sorriso iniziale della signora si era presto mutato in sgomento: Gaia reggeva in mano la cintura dell'abito, ed era evidente il rigonfiamento che era cresciuto in lei in quei due mesi. La ragazza aveva abbassato lo sguardo, per la prima volta si sentiva in estremi disagio davanti a sua madre. La donna aveva proferito uno sguardo glaciale alla figlia, le aveva ordinato di togliere l'abito, e poi, furiosa, si era rivolta all'ancella dandole la colpa di aver preso misure erronee e ordinandole di allargare l'abito. Poi aveva congedato la figlia, con lacrime rabbiose che le rigavano le guance, nelle sue stanze, non mancando di informarla che sapeva bene quello che stava succedendo. Gaia si era confinata nelle sue stanze private, mentre si abbandonava ad un pianto amaro, vergogna e timore.

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