XIX

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(Bucky Pentecost)

Il viaggio di ritorno mi trovai legata, mani e piedi, nel sedile posteriore di quel dannato furgone puzzolente e furono i due giorni peggiori della mia vita. Rimasi in silenzio, nonostante i soldati tentassero di parlarmi e farmi delle domande come "perché sei scappata di casa? Papino ti ha tagliato la carta di credito?" o "Non è stata una grande idea andartene da sola in giro per la città, cosa speravi di trovare?". Guardarono una mia foto e annuirono, confermando che fossi io il bersaglio.

Sapevano bene chi fossi, ma non fui certa comprendessero davvero per chi stessero lavorando o cosa fossi io. Mio padre aveva dato precise indicazioni, però aveva l'abitudine di non dire a nessuno la vera versione dei fatti, solo i minimi dettagli, e chi era agli ordini dei Graves sapeva gestirsi bene in queste situazioni. L'uomo di nome Bucky non mi tolse mai gli occhi di dosso e ogni tot controllava le manette e le fascette alle caviglie. Si misero comodi, ma non abbassarono le armi.

In quei lunghi giorni capii varie cose: a), mio padre era un bastardo su tutta la linea. Aveva detto che non mi avrebbe spedito alle calcagna i segugi e io ero stata fin troppo idiota da non pensare che non avesse altri assi nella manica. Mi ero dimenticata di essere sua figlia, di non essere libera.

B) Quei soldati erano umani e mi innervosii il doppio nel comprendere di aver perso contro un semplice soldato. Mi sentii umiliata nel profondo. Le auree di quegli uomini erano normali, tutte nella norma, a parte quella di Bucky. La sua era più profonda e vibrava, non aveva nessuna particella magica attorno a sé e non mi rese affatto tranquilla.

C) Ero nei guai seri. Avevo abbandonato Alex nel momento del bisogno, tralasciando il fatto che mi fossi defilata con un mostro da un'altra dimensione nelle vicinanze. Pensandoci sopra, avrei preferito quel mostro ai Graves.

Quando fu notte fonda e l'autostrada fu sgombra dalle auto e ci furono solo pigri tir che viaggiavano lenti, si fermarono in una stazione di rifornimento a mangiare. L'autista fece il pieno, poi si sedettero a terra e mangiarono hamburger e patatine. Il profumo era davvero allettante e morivo di sete.

Pensai che non sarebbe servito a nulla, ma dissi: «Ho sete» con tutta calma.

Interruppi il loro profondo discorso nel dire cosa avrebbero fatto con i soldi della mia taglia: donne, alcol e una lunga e lussuosa vacanza prima di tornare con un altro lavoro per ottenere altri bonus.

Uno di loro ridacchiò e mi passò il suo bibitone di Pepsi, appena cercai di berne un po' lo allontanò. A quanto pare trovò molto divertente la scena.

«Ho sete comunque» ribadii.

Non mi ascoltò. Probabilmente sarei riuscita a liberarmi in modo rapido, però erano cinque contro uno e in quella situazione non sarei andata lontano. Li avrei messi in difficoltà, non troppa, e non volevo ricevere una scarica del taser.

Usai un briciolo di magia per far volare dalla mano dell'uomo il bicchiere di plastica e tutti rimasero immobili, osservando la bibita schiantarsi sull'asfalto della piazzola a molti metri di distanza. Umani normali avrebbero avuto paura, ma loro mi diedero una lunga occhiata e fecero dei versetti.

«Oh, ho sentito parlare di loro. Non ne avevo mai visto uno» esclamò l'autista, mangiando delle patatine fin troppo ricoperte di ketchup.

«Che te ne frega? Non ci avevano detto di questa cosa!» sbraitò l'uomo di fianco a me, quello a cui avevo tolto il drink. «Che puttanata. L'avevo pure pagato.»

«Chiudi il becco, Steve» lo zittì Bucky.

Si alzò e cambiò posto, sedendosi vicino a me. Si pulì le mani e mi fece bere dal suo bicchiere la Pepsi. Nessun alcolico. Non erano così stupidi da trattare un bersaglio con sufficienza, specie se mio padre li aveva raccomandati di fare attenzione.

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