9. Allenamento

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Leia, 1945

-Sei lenta-
-Non è vero!-
-Sì, invece. È da un mese che ti alleni e ancora non riesci a schivare i miei colpi-
Marcel, il mio addestratore, non mi dà tregua. Sono settimane che ci alleniamo insieme e, benché il siero mi abbia donato diverse capacità, la velocità non è tra queste. Ma sono migliorata molto. Ora gestisco meglio i miei poteri: riesco ad evocare la luce quando voglio e a farle fare pressoché tutto, e con il mio udito mi sto spingendo sempre più in là.
-Fatti sotto- lo incito e lui non si fa pregare. Carica verso di me, lanciandosi a una velocità incredibile. Talvolta mi sembra impossibile che lui non sia stato sottoposto a nessun trattamento con il siero.
Schivo un paio di colpi, ma alla fine mi urta con un pugno che mi sbilancia e finisco a terra. Mi rialzo, determinata.
-Ancora-
-No, per oggi basta, abbiamo fatto abbastanza-
-Ancora, ho detto-
-E io ho detto no, fine della discussione- e dicendo questo si gira e si dirige verso la porta della palestra. Ci troviamo in uno dei piani sotterranei della base di New York dello S.H.I.E.L.D.. Questo posto è un labirinto. E la mia memoria ancora non si è ripresa, diversamente da quanto predetto da Howard.
In ogni caso, sia lui sia Peggy mi sono stati accanto in ogni momento possibile, nonostante la mia mancanza di ricordi.
Marcel apre e si richiude la porta alle spalle, lasciandomi da sola nella stanza. Quando mi alleno con lui non posso usare i miei poteri, dice che sarebbe come barare. Ma ora che sono sola posso fare pratica. Evoco l'ormai familiare luce azzurra, che mi avvolge le mani e mi avvio verso i sacchi in pelle da boxe. Comincio a tirare pugni. E piano sento la frustrazione andare via, mentre mi perdo nella ritmicità dei colpi.
Mi alleno come quando sono con Marcel: destro, sinistro, schivo. Solo che non sono i miei pugni a fare ballare il sacco, ma spruzzi di potere brillanti, che colpiscono il sacco con un rumore sordo. Ho notato che la luce cambia leggermente colore a seconda del mio umore: più sono arrabbiata o triste, più le scintille assumono un colore che tende verso il blu, mentre quando sono calma, la luce vira verso l'azzurro cielo.
Ora le scintille sono celesti e si liberano dalle mie mani per andare a colpire il sacco.
-Finirai con il romperlo, se continui così!- dice una voce familiare da in fondo alla stanza.
Peggy Carter, appoggiata allo stipite della porta, mi guarda con un sorrisino sulle labbra. Non mi sono nemmeno accorta che qualcuno era entrato tanto ero assorta nell'allenamento.
-Peggy! Che ci fai qui?-
-Sono venuta a vedere come te la cavi, soldato-
-Mi sto allenando, vuoi unirti?-
-No no, grazie! Sembri divertirti anche da sola!- afferma scoccando un sorriso.
Ricomincio a confrontarmi con il sacco.
-Sono venuta a ricordarti dell'appuntamento con il dottore-
-Giusto, il dottore-. Me ne stavo dimenticando. O, più realisticamente, volevo dimenticarmene. Peggy mi ha convinta a parlare con un medico specializzato in salute mentale, all'avanguardia nei metodi per la perdita della memoria. Dubito che funzionerà, ma le ho promesso che ci avrei provato.
-L'appuntamento è tra un'ora, hai tutto il tempo per prepararti. Poi ti accompagno-
-Peggy, non è necessario che venga anche tu, te l'ho detto. Me la caverò, tranquilla-
-No, insisto. Hai bisogno di una guida e ti accompagnerò- un sorrisino furbo si fa largo sulle sue labbra e io non posso che essere contagiata dal suo essere positiva, finendo a mia volta con il sorridere.
-Ok, grazie allora. Penso che sia arrivato il momento di prepararmi, quindi!-
-Esatto! Ci vediamo qui tra mezz'ora?-
-D'accordo, a dopo-

Mi incammino verso la mia stanza nella base, che si trova poco distante dalla palestra. Lo S.H.I.E.L.D. me l'ha riservata per tutto il tempo che voglio e io ho accettato. Prima di tutto questo, Peggy mi ha detto che vivevo in un piccolo appartamento a Brooklyn, non molto distante da dove vivevano i miei nonni. Potrei scegliere di andare a vivere al mio vecchio appartamento, ma ancora non me la sento. Credo che sarebbe un posto così familiare ma allo stesso tempo così... nuovo che la sola idea di provare a tornarci mi spaventa a morte. Una cosa per volta.
La mia stanza è una classica camera di un militare. Letto in metallo con le lenzuola perfettamente ripiegate, un piccolo armadio con dentro le poche cose che ho e un bagno minuscolo, con una piccola doccia. Mi faccio una doccia rapida, anche se resto qualche minuto sotto il getto e mi permetto di cercare di ricordare qualcosa. Nulla, solo dolore. Esco dalla doccia e mi asciugo, tamponando i capelli zuppi con l'asciugamano. Mi vesto indossando una gonna scura e una camicetta bianca allacciata fino al collo. Infine mi infilo la giacca coordinata con la gonna. Il completo e la camicia me li ha dati Peggy, e anche se all'inizio mi sembravano troppo grandi ora mi calzano a pennello, merito dell'allenamento delle ultime settimane. Nel giro di qualche minuto sono pronta e, dopo aver raccolto i capelli, mi dirigo di nuovo alla palestra, dove trovo Peggy in piedi ad aspettarmi.

Il percorso per arrivare allo studio del medico è intricato. Svoltiamo centinaia di volte in direzioni diverse, facendomi perdere il senso dell'orientamento. Menomale che Peggy sa dove stiamo andando: non sono mai stata così contenta di aver accettato il suo aiuto.
Dopo una ventina di minuti arriviamo allo studio. Si trova in un palazzo di almeno venti piani. Le pareti esterne sono di mattoni rossi, spezzate solo da finestre in ferro nere. Sotto, una serie di negozietti di sussegue per tutta la via, con le vetrate lucide: un fruttivendolo, un negozio di ferramenta, un macellaio, tutti vicini e che mettono in mostra i propri prodotti. Incastrata tra i negozi, una porta dipinta di rosso spicca come un bocciolo in una siepe. È lì che Peggy mi sta portando. Una volta aperta la porta ed entrati nell'androne, il chiasso della strada si attutisce. Saliamo diverse rampe di scale prima di trovarci di fronte all'appartamento 10 F. Sulla porta è affisso un cartello dorato che riporta la scritta: Dott. Malinsky. Medico psichiatra.
Peggy bussa educatamente e poi mi guarda, facendomi un sorrisino di incoraggiamento. Da dentro l'appartamento una vocina femminile ci urla "Avanti, prego!" e noi entriamo in fila, prima Peggy e poi io.
L'appartamento si apre nella segreteria, che separa lo studio del medico dall'entrata. Le pareti che si vedono sono di un azzurro chiaro, mentre le altre sono tappezzate di librerie che contengono pubblicazioni mediche.
Sono intimidita dal posto, quindi Peggy si avvicina al bancone e parla con la segreteria, una donnina bruna con una voce acuta, che ti stordisce. Ci informa che il dottore ci riceverà tra qualche minuto, e ci fa accomodare su un paio di poltrone in pelle rivolte verso una delle numerose finestra che occupano la facciata a nord. Ci sediamo e guardo fuori. Diversi uccellini si rincorrono nel cielo e, se mi concentro, sento le voci delle strada, il vociare dei bambini e le urla dei negozianti. Vengo strappata dalla mia fantasia da un rumore di una porta vicina che si apre cigolando. Il dottore esce dalla sua stanza scortando un giovane, poggiandogli una mano tra le scapole e incoraggiandolo a bassa voce.
Io e Peggy ci alziamo e una volta che il ragazzino è uscito, l'uomo ci rivolge un sorriso.
-Signore! Benvenute!-

WINTER SOLDIERS - Bucky BarnesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora