Una volta all'esterno, non mi ci vuole molto per individuarlo.
È seduto sul marciapiedi adiacente al parcheggio, mentre aspira nervosamente dalla sigaretta. Mi siedo accanto a lui in silenzio, senza proferire alcuna parola. Lo guardo di sottecchi e noto che anche lui sta facendo lo stesso.
Vorrei poter dire qualcosa, ma, in questo momento, tutto ciò che vorrei chiedergli mi sembra futile.
«Stai bene?» è lui a interrompere il silenzio.
«Tu stai bene?» gli rivolgo la sua stessa domanda.
«Oph te l'ho già detto, non puoi rispondere a una domanda con una domanda» l'angolo della sua bocca si contrae in un minuscolo e impercettibile sorriso.
«Sono stata meglio, e tu?»
«Sono stato meglio anche io» prende fiato «sapevo che non era un'ottima idea venire, ma il coach ha insistito tanto» si alza, portando entrambe le mani nelle tasche.
Alzo il volto verso di lui, cercando disperatamente i suoi occhi.
Decido di rimanere seduta mentre, con il mento rivolto verso l'alto, lo scruto.
«Ho questo cazzo di gettone della sobrietà dei sei mesi in tasca» me lo mostra, mentre ci gioca con le dita «vorrei solo andare in un cazzo di bar e barattarlo con qualche drink» ammette avvilito.
«Cosa ti farebbe stare meglio?» allungo la mano verso di lui, sperando che mi porga la sua per aiutarmi ad alzarmi.
Me la stringe, applicando una leggera pressione. Il contatto con il suo corpo rilascia una piccolissima scarica sul mio.
«Parlare» pronuncia quasi imbarazzato per poi proseguire «odio quando...»
«...ti lasciano da solo» lo interrompo, continuando la sua frase.
«Esatto» il suo sguardo su di me si fa più intenso, mi sorride debolmente quando si accorge che terminare la sua frase non è stato un caso, lo so benissimo anche io come ci si sente.
Se con me prima non ci fosse stata Kate, probabilmente, sarei fuggita a gambe levate e sarei affogata nel giro di qualche secondo nell'autocommiserazione.
Siamo ancora lì, così, mani intrecciate, occhi contro occhi, quando un forte rumore mi riporta alla realtà.
Mi giro verso l'ingresso del locale e Luke sta avanzando furioso verso di noi.
Jay mi lascia la mano e assume un'espressione neutra, come se nulla lo preoccupasse e nulla fosse accaduto.
«Eva andiamo!» Luke alza la voce verso di me.
Mi alzo in modo scomposto e non proferisco parola. Mi sento come un bambino, sgridato dalla madre, dopo essere stato beccato a mangiare la Nutella direttamente dal vasetto con le mani.
«Jefferson stai calmo, stavamo soltanto parlando» Jay tuona verso di lui.
«Ti conviene tacere» gli intima.
«Altrimenti?» un ghigno di sfida incornicia il suo volto.
Luke gli si para davanti gonfiando il petto. Cerca di mettersi più dritto che può per sembrare più imponente di quanto già non sia. L'altro è leggermente più alto di lui, ma la muscolatura è la medesima, hanno dei fisici molto simili. Non saprei chi di loro possa avere la meglio in uno scontro.
«Luke andiamo, dai, non è successo nulla» lo tiro per il braccio, cercando di interrompere gli sguardi assassini che i due si stanno rivolgendo.
«La prossima volta...non sarò così magnanimo» gli volta le spalle e, con una leggera pressione sul telecomandino, fa scattare le portiere dell'auto.
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The Art Of Being Art
RomanceEva, diciannove anni e un metro e sessanta di insicurezze. I traumi del passato torneranno prepotentemente a tormentarla, quando dall'Italia si trasferirà a Los Angeles per cercare di esaudire il suo sogno e quello di sua madre. Soltanto una persona...