Capitolo 26 - Justine

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A nonna M.,

cinque anni senza te.

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«Oph, mi stai ascoltando?» Jay mi punzecchia con un dito nel vano tentativo di farmi aprire gli occhi.

Ha parlato della sconfitta a Ravenna della Lega Santa contro i francesi per una buona mezz'ora, mentre io tentavo di riposare gli occhi distesa sul suo letto. 

Le palpebre sono diventate pesanti come macigni e, sebbene io non mi sia addormentata, non sono comunque riuscita a tenerle aperte. 

Mi sento privata delle mie forze; vorrei solo potermi ricaricare in qualche modo. So di avere decisamente bisogno di riposare ma, allo stesso tempo, sono perfettamente consapevole che non me lo posso permettere. Questo è il momento di mettercela tutta, di non lasciarmi distrarre da niente e nessuno. Questa settimana sarà determinante per il primo semestre del secondo anno, infatti, ho diversi test e presentazioni da svolgere prima della festa del Ringraziamento. 

Il mio corpo sta richiedendo ogni giorno che passa una quantità maggiore di pillole e io, pur di non eccedere nel numero, a volte mi autoimpongo di rimanere per qualche ora senza i loro effetti. 

La mia mente ormai è diventata come un labirinto. Peccato però che non credo ci sia alcuna via d'uscita. Non perché io sia incapace di trovarla, ma semplicemente perché non esiste.

«Ci sei?» Jay continua a parlarmi, ma io non riesco a rispondere a parole, perciò muovo leggermente il capo su e giù in segno di assenso, tentando di aprire gli occhi per dimostrargli che non sto dormendo.

«Scusami sono proprio stanca oggi» biascico.

Appena riesco a connettere un po' di più, mi sforzo per mettermi dritta. Quando mi alzo, però, la testa gira e con essa tutta la stanza. Dopo poco, mi abituo a quella rotazione frenetica, almeno quel tanto che basta per farmi cercare nella borsa il flacone e farmi buttare giù una pillola.

«Sono impressionato! Non hai bisogno nemmeno dell'acqua» Jay mi osserva accigliato dalla sua postazione.

«Sono capace di ingoiare qualsiasi cos-. Oddio no, ti prego, adesso non fare battute o vado via» porto entrambe le mani sulle tempie, cercando di massaggiarle per provare un po' di sollievo.

«Facciamo una cosa: io continuo con la ricerca e tu ti metti a dormire. Così, mentre ti riposi, quella roba fa effetto e potrai sentirti meglio al tuo risveglio» si alza dalla sua posizione alla scrivania per chiudere le tapparelle della finestra, facendo immergere di conseguenza la stanza in una profonda oscurità. L'unica luce è quella del suo computer. Si distende accanto a me, cominciando a pigiare ritmicamente sui tasti, mentre io dandogli le spalle, socchiudo gli occhi.

Sono nella soffitta di casa mia.

Nello specchio polveroso, abbandonato al lato della stanza, vedo il riflesso di una me bambina.

Mio padre e la zia Gin urlano a gran voce il mio nome. Li sento spostarsi da una camera all'altra, mentre mi cercano ovunque.

Io tengo stretto tra le mani un album di fotografie con la copertina rossa, ornata da caratteri dorati che compongono la parola USC, e al cui interno sono contenute tutte le foto dei miei genitori durante l'esperienza negli USA.

Le pagine bianche sono macchiate di lacrime. 

Credo di essere stata io a bagnarle con il mio pianto.

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