Capitolo 42 - Nel cuore di chi resta

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Mi sveglio su una superficie fredda e umida. 

Qualcosa di leggero mi solletica la pelle. 

Gli occhi sono come incollati, mi è impossibile aprirli del tutto. 

Riesco soltanto a riconoscere un'ombra maestosa che campeggia su di me, agitata da un flebile raggio di luce che proviene dall'alto. 

Tasto con le mani accanto al mio corpo, rendendomi conto che quella su cui ho dormito è in realtà erba, ne strappo qualche ciuffo portandolo al naso. L'odore mi aiuta a capire, data l'assenza della vista, che è effettivamente un prato quello su cui mi trovo. 

Mi alzo a fatica, cercando di abituare il corpo a muoversi, malgrado l'improvvisa cecità. 

A tentoni tocco qualcosa di ruvido, credo sia corteccia... un albero, forse? Avrebbe senso se lo fosse, considerando l'ombreggiatura ondosa che mi sovrasta.

 Porto avanti prima un piede e poi un altro, per tastare se vi siano degli ostacoli da evitare nel mio cammino. 

Alla fine mi lascio andare liberamente, proseguendo spedita verso un punto imprecisato di non so quale luogo. 

So dove andare però, lo sento. 

Cammino un po', fin quando, dopo pochi minuti, non sprofondo improvvisamente in uno strapiombo. 

Un po' indolenzita riesco ad alzarmi, sorpresa di non essermi rotta nessun osso. Non sanguino nemmeno, o almeno così sembra, se non fosse per il sapore metallico che sento nella bocca. Gli occhi paiono scollarsi lentamente, riesco finalmente a osservare tutto quello che mi circonda.

Mi accorgo di essere realmente sprofondata in una buca, ma quello che più mi stupisce, è la superficie sulla quale i miei piedi sono piantati: una bara. Mogano scuro, senza troppi orpelli e con il coperchio quasi del tutto occultato dalla polvere. Con un soffio cerco di farla volare via ma, i caratteri dorati che vengono alla luce, arrivano dritti alle mie pupille come una pugnalata nel petto. Mi basta scorgere solo il suo nome, Gioia, perché le gambe possano iniziare a tremarmi e la testa girare. 

Devo uscire di qui e al più presto. 

Come in ogni mio incubo, c'è una scala, ma questa volta è diverso. Devo salire, non devo scendere. 

Questo riesci ancora a farlo Eva, l'hai fatto un milione di volte su quella dannata soffitta di casa. In quante occasioni hai dovuto implorare l'aiuto di papà perché salisse a prenderti per aiutarti a scendere? E quante volte Francesco ha improvvisato le più bizzarre acrobazie per salvarti dagli alberi sui quali salivi e da cui poi avevi il terrore di scendere? Su Eva, fallo!

Un piede giù e uno su, rapida in salita. 

Ogni volta che guardo in alto, però, il punto in cui sono resta lo stesso. 

Il fosso diventa più profondo, il centro della Terra mi inghiotte e mi reclama. 

Dall'alto cade una rosa, bianca da un lato e appassita dall'altro. La riconosco immediatamente. L'ho gettata io un giorno di gennaio di tanti anni fa, prima che strati di terreno separassero me e quel che restava del corpo di mia madre. 

Dopo il fiore, arriva ciò che temo: la terra. Mi copre i piedi, le gambe, il busto, il collo, il viso, fino riempirmi le orecchie, il naso e infine gli occhi, la cui vista mi era stata restituita da poco.

Ancora una volta, muoio con lei.

«No, no, no, no sono qui... smettila. Sono qui, sei al sicuro» odo una voce maschile lontana anni luce, appartenente a un uomo non meglio identificato, che sta cercando di scuotermi pur di farmi svegliare.

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