Capitolo 23 - LA PORTA

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L'ultimo giorno del mese cadeva una fine pioggia grigia, che ricopriva il parco e la villa di un sottile velo d'argento umido, silenzioso e irreale. Illuminato dalla luce delle torce e del cielo plumbeo che si intravedeva attraverso le tende accostate, il corridoio si allungava nel cuore di Villa delle Rose, tra alte porte gotiche di pregiati legni intagliati e colonne di marmo e statue d'avorio.

Immersa nei pensieri, Menta imboccò il corridoio. Da quando si era svegliata il proposito di parlare con il Conte era vivo nella sua mente perciò era rimasta attonita, perfino delusa nel non incontrarlo a colazione. Ugo le aveva riferito che Sua Signoria si era alzato presto e si trovava nella biblioteca bianca, le aveva proposto di accompagnarla ma Menta aveva rifiutato, conosceva la strada. Non dubitava della discrezione dei servi della villa, ma preferiva non essere udita da altri che dal Conte.

Il cuore riprese a battere più forte del normale. Per l'ennesima volta recitò tra sé e sé il discorso con il quale avrebbe chiesto al Conte il permesso di tornare a Villa delle Rose. Avrebbe accettato? L'avrebbe accolta? E se le avesse domandato perché? Cosa rispondergli, nemmeno lei conosceva la ragione. L'avrebbe considerata un'invadente? Una donna con tanta faccia tosta da ritenersi diversa dagli altri al punto da godere del privilegio di entrare a Villa delle Rose?

Giunta al termine del corridoio, si fermò e alzò il mento risoluta. Era impossibile sapere quale risposta avrebbe ricevuto se non poneva la domanda. Non aveva altra scelta che affrontare il Conte.

Fu allora che notò che la porta davanti a lei non era quella della biblioteca. Si guardò attorno spaesata, poi rise. «Non è possibile. Mi sono persa di nuovo.»

Era certa di avere uno o due domestici alle calcagna, Ugo li mandava sempre a seguirla, ma per la prima e meno appropriata volta, constatò con disappunto, era stata lasciata libera.

Il sorriso scomparve lentamente dalle sue labbra. Davanti a lei, custodita dall'alto da un angelo che spiegava fiero una lunga fascia di marmo, c'era un'elegantissima porta ad arco acuto, di abete bianco. La serratura d'argento formava uno strano intrico di foglie che si raccoglievano e districavano a formare una sagoma a tre lobi.

Mentre un brivido le correva lungo la schiena, Menta fece scorrere la mano nella tasca tra le gonne. Trattenne il fiato mentre estraeva il pugno chiuso: lo riaprì e una piccola chiave d'argento a trifoglio era lì, fredda, sul suo palmo. Identica alla serratura.

Era il suo ultimo giorno alla villa, e quella chiave era stata dimenticata da anni. Che male poteva fare? E se entrare lì dentro fosse stato proibito, era sola, nessuno l'avrebbe vista. Avrebbe dato un'occhiata veloce e via, tutto come prima.

Inserì la chiave nella toppa. Uno strano fruscio corse lungo il corridoio, gelandole il cuore. La serratura oppose resistenza, ma alla fine cedette e scattò. Menta abbassò la maniglia intarsiata. Aprì la porta. Trattenne il respiro, si fece coraggio e varcò la soglia di quel regno proibito.

Si trovò in un'anticamera dorata, su un pavimento interamente ricoperto da un fine tappeto persiano dalle lunghe nappe candide. L'attraversò e finì in un elegante salottino bianco e rosa. Le lunghe tende color perla, trattenute da un cordone dorato, permettevano alla luce plumbea del mattino di cadere su sedie in mogano foderate con morbida polverosa imbottitura crema dagli arzigogoli dorati. Davanti al caminetto spento invaso dalle ragnatele, erano dimenticate una coppia di raffinate poltroncine e un divanetto dalle tonalità rosate riprese dai drappeggi che piovevano mollemente dal soffitto. Il luccichio dell'oro incantava, la ricercatezza dei dettagli confondeva. Quattro finissime statuine di donne velate la fissavano altezzose dalla mensola del camino, il tappeto di rosa e oro sbuffava polvere a ogni passo, un vistoso lampadario di cristallo ammiccava sul soffitto cosparso di riccioli di stucco.

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