Capitolo 40 - LA STORIA DI GUIDO

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Non mi è mai sembrato tanto lungo il viale che porta a casa. Che alba stupenda oggi! Il cielo sembra d'avorio! Dev'essere così per la mia felicità. Ecco, finalmente il portone.

Grido a squarciagola. Non fermo il cavallo e il povero Domenico, accorso ad aprire le porte, per poco non muore di paura ritenendosi già travolto. Ugo scende le scale, la sua espressione è sgomenta, e le sue rughe più numerose. Mi saluta con un inchino e io non riesco a trattenermi dall'abbracciarlo. Quanto mi è mancato! I servi accorrono.

"Ugo, dov'è la mia signora? Avete ricevuto la mia lettera? Sono finalmente tornato a casa! Dov'è la mia adorata Laura?"

Qualcosa nel silenzio della casa non mi convince. Racconto che ho portato regali per tutti da Milano, che ho acquistato un nuovo cavallo e ho perfino trovato uno stalliere, presento Amedeo, che mi è stato dietro per tutto il viaggio pronunciando sì e no due parole. Ugo lo saluta a sua volta, ma ancora Laura non mi risponde. Ripeto la domanda.

"Le ho portato degli abiti meravigliosi, e delle perle. Dov'è?"

Ugo non risponde. Sta lì, in piedi, rigido più di un morto, sotto le luci tremule del lampadario, e dietro di lui i due leoni di pietra, compagni della mia infanzia, mi pare che sospirino.

"Dov'è?" chiedo ancora. Il mio cuore, senza che me ne renda conto, sa già e trema.

"È uscita, signore."

Sono sollevato, per quanto mi sembra un'ora strana per uscire di casa. "Ha detto quando sarebbe rientrata?"

(Rientrata! Ero assai sciocco.)

"Noi... non abbiamo ricevuto alcuna vostra lettera, signore, e ieri notte..."

Ormai ne ho la certezza. È accaduto qualcosa.

"Il signor Corbale è venuta a trovarla, li ho lasciati nel salone rotondo, e... sono spariti."

"Spariti?"

Ugo si morde il labbro e fissa a terra, avvilito, mortificato, ritenendosi responsabile. "Hanno preso tutti i gioielli della signora, e il denaro della cassaforte nella vostra camera."

Il nero più cupo mi avvolge. Non comprendo, non vedo, non sento. Laura, Michele. Mia moglie, il mio migliore amico.

Ho il mio primo capogiro. Mi sembra di vedere un uomo dal mio stesso aspetto correre di nuovo fuori, montare a cavallo e galoppare sulla scia dei due amanti. Amedeo mi segue. Un uomo così indipendente, così orgoglioso, che già mi è fedele ed è disposto a seguirmi ovunque vada.

Li inseguo, mi avvicino sempre più, coltivo un odio che si fa ogni giorno più forte, più oscuro, più radicato, e loro fuggono, sperando di farmi perdere le loro tracce. Che ingenui! Senza tregua, senza sosta, non do loro pace, come una bestia annuso il loro terrore senza mai vedere i loro visi, corrono a Verona, Mantova, Modena, Lucca, e da lì a Piombino, dove mi sfuggono per un soffio e riescono a imbarcarsi per Napoli.

Poveri sciocchi! La corte che speravano di raggiungere aveva levato le ancore ben prima dell'arrivo dei francesi per seguire Ferdinando e la sua isterica Maria Carolina.

Sostano avviliti e impauriti nelle campagne napoletane, circondati dai briganti e dalle civette, ma non è di loro che hanno paura. Hanno paura di me, li ho scoperti molto prima di quanto sperassero. Sanno che ho parecchie amicizie, e ovunque si nascondano ora non hanno possibilità di farlo senza che io lo venga a sapere entro poche ore.

E così è.

Essi sono su una carrozza scura e traballante che fugge a rotta di collo in una stradina per i boschi del Cilento. Il mio cavallo è stremato, sono mesi che non lo risparmio. Nemmeno in Francia, dove lo comprai, l'avevano fatto faticare tanto. Io invece sono instancabile, ogni metro che mi separa da loro mi riempie di odio, e ormai l'odio è il nutrimento della mia anima.

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