Capitolo 33

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Non so per quanto tempo rimasi in quella stanza, so solo che, nel tempo in cui rimasi lì legata, riuscii a contare tutte le ragnatele che riuscivo a vedere dal dove mi trovavo. Sui muri, negli angoli, per terra... al giorno ne contavo quasi 300, ma aumentavano giorno dopo giorno.

Persi facilmente la cognizione del tempo in quella situazione, passavano le ore, ma io non le sentivo. Non riuscivo a capire niente. Non c'era nemmeno una finestrella, solo la luce fioca della lampadina sopra il mio capo. Sulla mia pelle scivolavano le ore come se fossero giorni.

Quando lo scagnozzo tornò da me, con in mano acqua e una strana poltiglia in un piatto, non mi trattenni dal soddisfare le mie domande.

"Che ore sono?"  chiesi, visto che quella domanda mi stava stressando il cervello da quando ero lì.

"È calato il sole cinque minuti fa."  rispose, senza aggiungere altro. Non riuscii ad avere un attimo di tempo per parlare che avvicinò violentemente la bottiglia d'acqua alle mie labbra, e mi costrinse a bere.
"Bevi, sgualdrina. Ho voglia di tornare a giocare la mia mano fortunata a black jack."

Quasi non affogai, ma avevo allo stesso tempo una sete per la quale sarei potuta morire. Quando mi lasciò finalmente respirare iniziai a tossire violentemente. I polmoni mi facevano male, e i muscoli addominali non riuscivano a sostenere bene lo sforzo. Una buona metà dell'acqua la rigettai fuori e cadde rumorosamente sul pavimento sporco.

"Che schifo."  sputò lui.  "Fattela bastare perché non tornerò prima di domani sera."

Riuscii a far funzionare bene i miei polmoni, tornando a respirare normalmente. Mi sentivo gli occhi rossi, come se stessero per prendere fuoco. Alzai lo sguardo su di lui, e mi buttò il piatto sulle cosce; guardai  quella poltiglia, non domandandogli neanche cosa fosse. Si girò, e si diresse subito verso la porta.

"E io come faccio a mangiarlo?"

"Ti attacchi al cazzo!"

Chiuse la porta rumorosamente, sbattendola con molta forza, facendo rimbombare quel rumore in tutta la stanza.

Non avevo più fame, quella merda non era cibo, perciò scossi le ginocchia abbastanza da far cadere il piatto dalle mie gambe. Sbuffai, scuotendo la testa.

Dov'era finita Clarke? Che fine aveva fatto? Mi stava cercando? Stava cercando di salvarmi?

Passarono tre giorni. Continuavo a sputare l'acqua e a rifiutare il cibo, e a lui a quanto pare non piaceva. Si divertiva a minacciarmi con quel coltello e non sono mancati piccoli tagli sul mio viso e sulle mie cosce.

La terza sera in cui mi portò l'acqua sconvolse la mia nuova 'routine quotidiana'; invece di andarsene e lasciarmi sola come i giorni precedenti, rimase lì, con il coltello e un cellulare in mano.

Rimase lì con me, seduto proprio al mio fianco, su una sedia bianca. La cosa mi preoccupò più del solito. Squillò il cellulare, più e più volte, e lui rispose a tutte, ascoltando solo quello che gli dicevano, puntò il coltellaccio sul mio collo, e iniziò leggermente a graffiarlo usando la punta, mentre era al telefono.

"Sì, Dhom. Aspetterò."  chiuse la conversazione.

Deglutii, sentendo bruciare un preciso lembo di pelle poco sotto la mascella.  "È arrivata la mia ora?"

Lui ridacchiò.  "Ancora no, forse la prossima."

"Ti ordineranno presto di uccidermi?"

Sorrise, in modo inquietante. "Certo, piccola. E sarà un vero piacere. Sulla tua testolina ci sono un casino di soldi, sai?"

Sentii la lama accarezzarmi la guancia.  "Quanti?"

"Tsk, davvero troppi. Dopo questa sarò apposto per tutta la vita."  disse.  "E tutto grazie al tuo stupido padre e al suo adorabile orgoglio."

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