2.1│Giocare con il fuoco

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"Non c'è trappola più mortale di quella
che prepariamo con le nostre stesse mani"
- Raymond Chandler

Nell'ultimo mese Izuku rifletté seriamente sulla possibilità di essere masochista nell'accezione più estesa del termine.

Aggiunse quella parola alle tante altre sul suo notebook numero diciotto, un quadernino dove appuntava di tutto, dai termini particolari alle citazioni, dalle riflessioni fino a qualche disegno, e da allora continuò a rimuginarci. Aveva sempre dato grande importanza alle parole e sentito l'esigenza di chiamare le cose con il loro nome, come se definirle servisse a renderle più reali e vere.

Voleva capire se questo "masochista" fosse appropriato per sé stesso. In effetti avrebbe chiarito molti atteggiamenti più o meno consapevoli che lo caratterizzavano fin da bambino: perché finiva spesso con l'autosabotarsi e cacciarsi nei guai, perché reagiva alle ingiustizie porgendo l'altra guancia, perché dava facilmente altre possibilità a chi lo aveva deluso mille volte.

Spinto dalla sua insanabile curiosità, svolse anche delle ricerche sull'argomento.
Scoprì che, dal punto di vista strettamente fisiologico e anatomico, i recettori periferici del dolore sono gli stessi del piacere. Anche il dolore fa produrre endorfine, tra gli ormoni della felicità per eccellenza, che poi restano in circolo dando una sensazione di euforia e benessere.
Per la psicologia, invece, il masochismo si spiega come meccanismo di difesa che un soggetto può sviluppare durante l'infanzia per aiutarsi a gestire rapporti di natura traumatica, trasformando il dolore in un sentimento piacevole e illudendo di essere meno impotenti.

Tutte spiegazioni razionali, ma a Izuku ancora non bastavano. Era come se mancassero dei tasselli fondamentali di un puzzle e, mentre si affannava a cercarli, il resto che aveva messo insieme con fatica venisse periodicamente vanificato, distrutto da una folata di vento. Per la precisione, più un uragano che di nome faceva Katsuki Bakugo.

Si ritrovò a guardarlo per l'ennesima volta. Ormai aveva perso il conto di quanto avveniva, più o meno volontariamente, e del modo crudele in cui per tutta risposta veniva fulminato o, peggio e più spesso, ignorato.

Faceva male.

Faceva male averlo così vicino eppure così lontano, irraggiungibile. Lì sdraiato supino in uno dei letti di fronte al suo, le gambe scomposte, un braccio a reggere il cellulare davanti al viso e l'altro dietro la testa, sotto all'asciugamano su cui poggiavano i capelli ancora umidi dalla doccia. Stava a torso nudo con una tale disinvoltura, come se la temperatura della stanza d'albergo di Berlino, città prescelta per l'ultima gita del liceo a metà marzo, non sfiorasse appena i venti gradi. Ovviamente gliel'aveva fatto notare, con scarsi risultati.

Faceva male fisicamente. A parte che non poteva vantare quella salute di ferro, al solito il suo corpo, sensibile al pari della sua indole, rifletteva il malessere emotivo. Aveva un raffreddore perenne da due mesi ormai, la febbre andava e veniva, gli era tornata la dermatite da stress sulle braccia e sulla schiena e passava sempre più notti insonni a contorcersi per il mal di pancia e l'assordante rumore dei suoi pensieri.

E faceva male soprattutto al cuore, perché era stato uno stupido a credere di poter valere qualcosa per Katsuki.

Per un attimo se ne era illuso, quella volta alla baita. Quando lui si era scusato mettendo da parte il suo immenso ego, gli aveva asciugato le lacrime, erano rimasti in silenzio ad ascoltare i battiti dei loro cuori. Era stato tutto molto inaspettato, veloce, confuso, ma ricordava di essersi sentito come avvolto in una bolla che teneva fuori il mondo esterno e le sue paranoie. Finalmente aveva provato quella sensazione che desiderava da sempre: si era concesso di non pensare ed era stato bene.

𝙢𝙮 𝙞𝙩𝙖𝙡𝙞𝙖𝙣 𝙖𝙘𝙖𝙙𝙚𝙢𝙞𝙖 ❘ a mha storyDove le storie prendono vita. Scoprilo ora