Notte n° 11

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Ormai qualche mese è trascorso dalla visita di don Pablito. La mia vita è cambiata. Sono un marito. Casa mia ora è casa nostra, le mie cose sono fuse con le sue. Vedere il "mio" spazio ricrearsi per diventare il nostro spazio mi dà serenità. Da quando ha preso posto accanto a me nel letto, la mia insonnia è sparita.

Purtroppo i nuovi ritmi e l'odioso lavoro hanno ridimensionato i miei tempi e spesso è capitato che molti dei miei ospiti notturni non hanno avuto ascolto e sono andati via per non tornare più. Tutti tranne uno: l'insistenza fatta uomo. Un ragazzo sui 25 anni, iride e pupilla si confondevano in un nero profondo che assorbiva lo sguardo di chiunque gli fosse stato dinanzi. Scalzo, con un pantalone di pigiama a righe marroni, un braccialetto da ospedale al polso, una maglia verde militare e al collo una catenella con delle piastrine. Lo trovai una notte in piedi davanti al mio portone mentre rincasavo, non penso volesse parlarmi ma per sicurezza porsi subito le mie scuse e gli spiegai che non avevo tempo quella sera. Credevo che sarebbe sparito come gli altri ma non fu così. Veniva ogni notte e si sedeva in terrazza, lo ritrovavo la mattina mentre bevevo il caffè, in macchina seduto mentre guidavo e persino nel mio ufficio. Sempre lì, muto, con la violenza del silenzio e dell'immo-bilità. Questa storia andò avanti per quasi due settimane.

Un tardo pomeriggio di fine settembre tornai a casa in auto ed ero solo. Davanti al portone non c'era nessuno e il terrazzo era deserto. Mia moglie, reduce da un lungo turno in ospedale, aveva ceduto davanti all'avanzata del sonno. Mangiai un boccone al volo e mi sedetti all'aria fresca. Avevo smesso di fumare ma in compenso il ginocchio aveva iniziato a tremare. Nessuno: ora che potevo ascoltare, nessuno si faceva avanti. Attesi sinché i rumori della sera cedettero il posto a quelli della notte. Amareggiato, mi guardai attorno con occhio scrutatore, inspirai profondamente l'aria fresca di settembre e decisi di andare a dormire. Il sonno profondo aveva trasformato mia moglie nella versione femminile dell'uomo vitruviano. Aveva occupato l'in-tero letto. Per amore decisi di accucciarmi sul sofà, la stanchezza della giornata lo rese un giaciglio estremamente confortevole. Mentre la mia mente vagava tra pensieri e sragionamenti, il mio corpo cedeva sempre di più, le palpebre pesanti iniziavano lentamente a spegnere il mio sguardo e fu allora che lo intravidi. Si avvicinò, un leggero sorriso aveva addolcito i suoi lineamenti, si chinò su di me e mi sussurrò "ti prego, vieni con me". Detto questo mi addormentai. Scrissi appena mi destai da quel sonno irragionevole. Mi aveva mostrato, non bastava raccontare, dovevo vedere, percepire e giustificare il suo stato. Il ricorso alla patologia mentale per dimenticare, la follia per scacciare la ferita che ciclicamente sanguina. Erano le 3.15 del mattino, ero solo. Lui era andato via, momentaneamente più leggero ma pronto a rivivere in eterno quel tomento. L'avevo vissuto solo per pochi istanti e già desideravo fortemente dimenticarmi di lui.

L'apprendista CantastorieDove le storie prendono vita. Scoprilo ora