Notte n° 13

4 0 0
                                    

Mai sottovalutare il potere del rosa, a maggior ragione quando si presenta sotto forma di due lineette parallele che si materializzano in un pezzo di plastica a forma di termometro. Positivo. La percezione della realtà cambia, tu cambi. Una positività voluta con naturalezza ma che una volta arrivata, spaventa. Puoi essere pronto quanto vuoi, ma la gioia si bilancia con la paura della responsabilità genitoriale. Per fortuna dura solo pochi attimi e dopo, emozioni confuse sommergono tutto. Fantasie sul futuro: la scelta del nome, dubbi sul sesso ma soprattutto la granitica speranza che sia sano e che tutto proceda tranquillamente. Le settimane passavano e vedevo il corpo di mia moglie che gradualmente e con dolcezza si rimodellava per accogliere al suo interno il nostro futuro.

I mesi si susseguivano lenti e stranamente dopo Giulio e Diego nessuno era più venuto a farmi visita, solo lavoro, riunioni e trasferte. Odiavo il mio lavoro. Iniziai a provare una strana sensazione di vuoto, come se mi mancasse qualcuno.

Mi ero abituato a loro e mi pentii per quelle volte che, per cause diverse, avevo rifiutato l'ascolto ai miei ospiti notturni. Le notti insonni tornarono ma questa volta per mia moglie. Il peso crescente non le permetteva di riposare e allora quelle ore si trasformavano in chiacchierate, progetti e slanci di immaginazione. Con le mani lo cercavamo sino a quando non percepivamo un calcetto o un colpo di gomito. Cantavamo, narravamo storie. Per farla breve tutte le cose più assurde e sciocche che solo le persone innamorate possono compiere. Le parole dette da Giulio quella notte, iniziavano a caricarsi di un senso diverso, le comprendevo, le sentivo mie. Che cosa strana l'attesa. Il nostro maschietto se la prendeva comoda, ormai eravamo alla quarantunesima settimana e non aveva alcuna intenzione di venir fuori. Cominciavamo a considerare la gravidanza come una realtà eterna. Un rovente pomeriggio di fine agosto quest'eter-nità si infranse e la tipica e cinematografica corsa in ospedale mise fine all'attesa. Almeno questo era quello che credevamo. Quello che sembrava si sarebbe risolto in poche ore iniziò a rallentare. Il sole tramontò. Non ho mai capito perché, ma con il sopraggiungere della notte i luoghi cambiano volto. Gli spazi si allargano, i colori si spengono e le voci vengono assorbite dal silenzio. Il lungo corridoio che sino a poche ore prima era agitato da folle di pazienti, ora muto accoglieva me e mia moglie che abbracciati facevamo quello che in questi casi si può fare ovvero attendere. Il suo viso tentava con fatica di celare la tensione dovuta al dolore, con una punta di logorrea cercava di intavolare i discorsi più svariati per non impensierirmi. Come molti uomini anche io non sono in grado di comprendere sino in fondo le donne, ma gli occhi della persona amata non possono nascondere nulla. Il suo corpo stava mettendo alla prova la sua tempra. Alle 2.00 del mattino dopo una fiaccante insistenza da parte sua e dopo le rassicurazioni del medico tornai a casa per riposare un paio d'ore. Dallo scrittoio presi il pacchetto di sigarette riposto lì prima del matrimonio e andai in terrazza. Il caldo era soffocante e i grilli riempivano l'aria. Auto lontane, passi per strada. Lo stomaco si contorceva e la schiena rigida urlava dal dolore. Rimasi con i gomiti impalati sulle ginocchia fissando il pavimento tra i miei piedi. Il senso di colpa per aver lasciato mia moglie da sola, aggiungeva acidità ai movimenti del mio stomaco. Accostai la sigaretta alle labbra, inspirai debolmente, avvicinai l'accendino, accesi e inspirai questa volta con avidità. Il calore si diffuse nei polmoni e chiusi gli occhi. Mi appoggiai allo schienale della panca, fissai il cielo e mi persi tra le stelle. Il mio pensiero non riusciva a staccarsi da mia moglie da sola nel suo letto d'ospedale. Chiusi gli occhi e quando li riaprii sentii di essere in compagnia. Mi guardai attorno e vidi la ragazzina con la corda alla caviglia, allargai lo sguardo e mi resi conto che non era l'unica ad essere tornata. Seduta a poca distanza da me c'era Ametista, in piedi appoggiato al davanzale l'uomo dall'altezza imbarazzante e poi ancora Amaranta, Isabella, il ragazzo in pigiama, l'ometto della cioccolata notturna, Diego, gli amanti infelici delle prime notti e persino il folle di Roma. Tutti. Poi sentii le mani di Don Pablito appoggiarsi sulle mie spalle. Non ero più solo. Tutti mi fissavano e, nonostante avessi sempre odiato sentirmi osservato, i loro sguardi mi rasserenavano. Muti, con un lieve sorriso. Avevo come l'impressione di sentire le loro parole. Erano tutti qui per un motivo che ancora mi era oscuro, ma ero felice di rivederli tutti e proprio in un momento come quello. Tornai a chiudere gli occhi, una colata di pensieri coprì il mio animo. All'improvviso timori, ansie e insoddisfazioni si mescolarono in pochi istanti, come se gli argini del bacino che li conteneva avessero improvvisamente ceduto. Le mani, che ancora poggiavano sulle mie spalle ebbero un debole fremito e la voce del nonno dei nonni riempì il silenzio con un "te escuchamos". Riaprii gli occhi e vidi nei volti il desiderio di ascoltare, di condividere, di alleggerire. Iniziai a raccontare. Mi ascoltarono per ore, in silenzio. La mia storia, la mia debolezza e la mia forza, le mie sconfitte e le mie vittorie. Dopo tanto girovagare tra i lati più oscuri e irrisolti della mia vita cercai ristoro parlando della donna che amavo. La sua sola presenza nei miei giorni suscitava in me il desiderio di essere un uomo migliore.

Terminato il racconto, ad uno ad uno svanirono. Don Pablito mi fissò, sorrise e facendomi l'occhiolino mi lasciò solo. Accesi un'altra sigaretta, la bocca era prosciugata dal tanto parlare. Non saprei dire esattamente quanto tempo rimasi con gli occhi fissi sulla città che iniziava a prendere vita. Nel posacenere un numero vergognoso di mozziconi giacevano contorti nella cenere. Tra i mille pensieri e le voci pressanti uno si fece largo e mise a tacere tutto.

L'apprendistato era finito, ora era il momento di rispolverare il coraggio. Mi sarei licenziato. I pensieri non erano mai stati così lucidi e mai la mia schiena così dritta. Mi alzai, misi la testa sotto il rubinetto, rinfrescai mente e spirito e andai in ospedale.

La notte aveva lasciato il posto ai colori dell'alba. L'alba del giorno in cui divenni padre.

L'apprendista CantastorieDove le storie prendono vita. Scoprilo ora