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"Sono Noemi" dico io schiarendomi la voce, speranzosa che lei potesse darmi un segno di vita dall'altra parte della stanza, sperando che lei mi concedesse di aiutarla.
Sua madre era in sala con Niccolò che cercava di rassicurarla in tutti i modi, se quella donna era così distrutta, voleva dire che Matilde stava mille volte peggio, e ciò mi causava sempre più nervosismo. Avevo paura di non riuscire a tirarla su.
Nessuna risposta trapelò dallo spiffero della serratura che aveva quella porta color legno che la rinchiudeva dal mondo esterno. Non pretesi subito una sua risposta, doveva essere difficile per lei e la comprendevo a pieno, non mi aspettavo nessun perdono, volevo solo vederla.
"Ti prego.." le dissi nella speranza che mi stesse ascoltando, capendo il vero motivo per il quale ero lì a pregare un suo invito. Abbassai gli occhi guardandomi le gambe tremare, sguardo di speranza e malinconia mi contagiava il viso.
Fu solo all'improvviso che sentii la serratura dare uno scatto forte e deciso, lei mi stava dando il permesso di vederla e non avrei sprecato questa opportunità, io l'avrei tirata fuori da quell'incubo tanto grande, io l'avrei fatta vivere di nuovo.
Misi la mano sulla maniglia di ferro laccato freddo, lo sbalzo di temperatura mi fece sussultare il cuore, mani calde e ansiose al contatto con il ghiaccio che si rinchiudeva in quella stanza. Era il momento.
Mi girai prima di aprire la porta, sorrisi lievemente allo sguardo sorpreso della madre, volevo rassicurarla, mi distruggeva vedere una mamma pronta a dare tanto di quel calore alla propria figlia, essere così preoccupata per lei, era una sensazione che non avevo mai avuto l'opportunità di vivere.
Aprii leggermente, mi bastò poco alla vista per capire che Matilde stava vivendo da settimane ormai nelle tenebre più scure, si stava rifugiando nel buio più totale che le stava soffocando la vita, che le stava soffocando l'appetito.
Entrai, senza guardarmi di nuovo indietro, ero decisa per la prima volta nella mia vita e non avevo bisogno de sostegno di nessun altro, era lei che aveva bisogno del mio.
Chiusi la porta e mii girai, la vidi seduta, gambe incrociate, sguardo assente nel guardare il soffitto bianco panna, scuro poiché privo di luce  come ciò che la stava attraversando. Provai dolore  in me, un brivido mi percorse la schiena, come se qualcuno fosse pronto a pugnalarmi alle spalle, quella sensazione che un po' tutte noi donne abbiamo, il sesto senso.
Matilde, la ragazza più bella che io abbia mai visto, occhi verdi come il prato, profondi come una foresta riempita da pini, pini che ti oscurano la vista del cielo, che ti fanno perdere nell'immensità di un posto magicamente fatato, rimuovendo completamente dalla tua mente la cognizione de tempo, ore perse nel suo sguardo, rapiti dalle iridi non troppo chiare.
I suoi capelli biondo cenere, mossi come se fosse una bambola in cera, adesso scompigliati in una coda bassa che le cade morbida sulla schiena, incasinata come paglia, come la sua mente.
Non parla, io rimango ad osservarla continuando ad osservare ed a preoccuparmi di ogni particolare cambiato su di lei, notando la sua carnagione più chiara del solito, bianca come una ragazza delle montagne, fredda con rovine su di essa che le rendevano porcellana ogni parte del corpo, era fragile come mai.
Ovviamente non ci volle molto, notai subito il problema, compresi il casino che la stava incastrando in quelle pareti strette, capii subito cosa la tormentava, cosa la racchiudeva tanto fragile, cosa la stava rovinando.
Le gambe scoperte che racchiudeva tra le sue braccia esili sono state la prima cosa a saltarmi all'occhio, ossa con pelle, niente di più, niente di meno.
Quelle sue gambe alte, cosce sode, polpacci forti che reggevano tutte le sue piroette, che le permettevano di esprimersi come voleva adesso stavano sparendo, si stavano smaterializzando nel nulla. Avevo la sensazione che potesse spezzarsi, farsi male anche con un semplice filo di vento invernale, quello che senti quando ti avvicini al mare mosso, l'odore di brezza che ti invade, quello che adoravamo da quando siamo piccole, quello che non sentivamo da un po' insieme. Tutte le nostre azioni, avventure che si erano annullate.
Poi alzai lo sguardo, il colpo al cuore che mi venne nel vederle le braccia, le mani, i polsi fragili, ammanettati dal dolore che cercava di non dimostrare da un po', lei incastrata nei rimorsi che le fanno scoppiare la testa, che l'inferno le riserva.
Mi dispiaceva, ma dovevi essere forte, per lei dovevo essere la sua roccia, doveva aggrapparsi a me, doveva vedermi come una mano destra, come una spalla sulla quale poter piangere, gridare senza preoccuparsi, senza aver timore.
Non riuscivo a vederle il viso, il buio ci circondava, non potevo notare la distruzione sui suoi occhi, volevo vederla semplice, per come era davvero in quel momento.

Il moro dell'elementariDove le storie prendono vita. Scoprilo ora