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"È bloccata" dice Niccolò voltandosi in modo non troppo preoccupato, dopo aver cercato di aprire insistemente la porta dell'ascensore piccolo nel quale eravamo assieme. Dal suo tono non mi sembra per nulla agitato, come se fosse successa una cosa da nulla, anzi, se la rideva di nascosto facendo interesse a chissà quali pensieri perversi che stava elaborando nella sua mente.
Io invece non ci voglio credere, voglio solo pensare che sia un incubo dal quale sto per risvegliarmi, non riuscirei a rimanere più di un ora chiusa qui dentro, mi sento già strozzata dalla tensione e dalla tristezza della situazione che sta per avvolgermi insistentemente.
"No, no, no e no!" Dico tra me e me, non preoccupandomi del mio tono forse leggermente troppo alto. Lo capisco poiché sento lo sguardo di Niccolò su di me, me ne accorgerei ovunque, in qualsiasi circostanza. Mi dirigo verso la porta pregando che Niccolò si sia solo sbagliato, o che abbia scherzato sulla cosa sbagliata. Lo spintono involontariamente ancora attutita dall'ansia che regna e vive in me per potermi dirigere verso la porta facendolo rimanere di piatto, perplesso. Cerco di aprirla con tutta la forza che ho in me, non volevo rassegnarmi, non volevo crederci.
Lui continua a guardarmi con fare perplesso,
si passa la mano tra i capelli scompigliandoli sempre di più, poi si gratta la nuca come se stesse ricercando nella sua testa la risposta alla mia preoccupazione esagerata, forse un po' troppo.
Appoggio le mani sulla porta dell'ascensore, come se potessi sentire Matilde con le sue mani calde e lisce fuori dalla porta ad aspettare le mie, impaziente. Invece non era così, ero io ad aspettare impazientemente le sue, ero io che avevo estremamente bisogno di averla vicino, di rendermi conto di come stesse e di potermi prendere cura di lei. Dovevo, ero in dovere di farlo.
Avevo bisogno di rassicurarla, di farle sentire la mia presenza ora il più possibile, invece ero bloccata in un ascensore che sembrava si stringesse sempre più, come se stesse per schiacciarci tra le pareti come formiche.
La mia tensione che continua ad aumentare, la pressione causata dalla mia claustrofobia stava per prendere il sopravvento facendo riaffiorare in me tutti i sensi di colpa precedentemente zittiti, zittiti ma solo apparentemente.
Invece di essere lì con lei, pronta ad accoglierla prendendomi cura del suo cuore, ero in questa fottuta ascensore con Niccolò, Niccolò e i suoi pensieri perversi che fino a qualche minuto prima non mi dispiacevano, ma che adesso mi procuravano un aumento di tensione immensa, una immensa e mai provata.
Mi lascio cadere, scivolo con le mani ancora sulla porticina gialla e mi accascio sul pavimento, mettendomi seduta, nella speranza di un angelo custode pronto ad aprire questa porta che rappresentava una prigione troppo pesante per una come me.
Sguardo fisso sulla porta che presentava una piccola finestrella, che faceva entrare un leggero filo di vento, poiché stavamo avvicinandoci all'inverno, dalla quale però non si vedeva nulla, poiché incastrati tra il quinto e il sesto piano dell'infinito palazzo.
Muro grigio ci bloccava la vista, mettendomi ancora più ansia.

Sento passi dietro me, ma non ho la minima intenzione di voltarmi lasciando a Niccolò lo spettacolo di una quindicenne che piange poiché bloccata in una ascensore come una cretina. Non volevo che Niccolò mi vedesse come un infantile, come una che è instabile con i propri sentimenti, come una che barcolla tra i propri pensieri e le proprie domande.
Non volevo che Niccolò mi vedesse per come ero, non volevo che mi mettesse a nudo in modo da far trasparire le mie paure, insicurezze e ansie. Volevo mostrarmi a lui perfetta, nella speranza che mi vedesse come una splendida ragazza del quale innamorarsi.
Io e lui avevamo avuto sempre un rapporto vero, sempre un modo leale di conversare, un modo intimo che ci faceva conoscere tutto di noi. Io che lo bramavo, desideravo il nostro rapporto più di qualsiasi altra cosa, anche se il nostro rapporto, da quando ci eravamo separati, era cambiato modificandosi in un modo sconcertato, in un modo che non riconoscevo più. Poi ho capito, che anche prima non tutto di noi traspariva liberamente. Mi sono accorta di non sapere veramente tutto di lui. Ero più io a condannare le mie preoccupazioni, lui ascoltava e mi accoglieva per farmi sentire meno sola.
Lui non parlava mai, diceva poche parole che rassicuravano più di un discorso intero, ma stava muto sulle sue preoccupazioni, preferiva udire le mie scostandosi dal mondo pessimo che lo circondava, preferiva non pensarci veramente prendendosi le colpe altrui.
Questo ragionamento raffiorato nella mia mente qualche ora fa, prima di bloccarci in questa maledetta scatola piena di malinconia e senza fiato.
Lui che aveva sempre provato qualcosa per me, io che non ascoltandolo mai non me ne ero mai accorta. Mi sentivo estremamente in colpa, Matilde aveva ragione. Non mi ero mai preoccupato degli altri, cercavo di sconfiggere i miei demoni interiori non rendendomi conto di ciò che mi distruggeva e che distruggeva gli altri nel mondo esterno. Vivevo in una realtà parallela, senza aiuto e senza nessuno. Nessuno pronto a rendermi la mano, solo io difronte alle mie paure, senza armatura e maschere, senza trucco e senza inganno. Solo me e loro, solo me piccola e minuta, loro possenti e paurosi.

Il moro dell'elementariDove le storie prendono vita. Scoprilo ora