Capitolo 20

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CAPITOLO VENTI

Quella casa abbandonata era veramente la sede scelta dalla compagnia, entrando Lorenzo si era trovato davanti ad una scena che ricordava le occupazioni dei licei del periodo della Pantera, c'erano sacchi a pelo per terra in ogni stanza, due o tre fornelli a gas, pentole seminate qua e la, sacchi e valigie un po' dappertutto e poi candele ed odore di cera bruciata. Capì immediatamente che c'era qualcosa di strano in quell'accomodamento, tutte le finestre erano chiuse ed oscurate, e la luce elettrica era staccata, qualcosa filtrava da un lucernario sul tetto ed illuminava in modo sinistro gli ambienti polverosi, gli pizzicò il naso a vedere le lame di luce che evidenziavano l'aria carica di pulviscolo, istintivamente si coprì naso e bocca per non respirare quel gas malsano, non c'era anima viva, almeno così sembrava, girò tra una stanza e l'altra cercando di farsi sentire, ma non sapeva se chiamare a voce alta Pasquale e la moglie o evitare e scappare via, magari aveva sbagliato a segnare l'indirizzo, e quella era una casa occupata da zingari o roba del genere. Cominciò ad avere paura, pensando di aver fatto una idiozia ad entrare nonostante tutto gli dicesse di non farlo, si girò per uscire in fretta, ma una figura di donna gli si parò davanti. Non riusciva a distinguerne i dettagli perché la luce che veniva dalla porta d'ingresso aperta ne mostrava solo i contorni, sembrava esile, con una lunga capigliatura che probabilmente era acconciata o per meglio dire attorcigliata sulla testa, con tante ciocche che scappavano in diverse direzioni. Si fermò davanti a lui, lentamente i suoi occhi cominciarono a distinguere qualche particolare, poi lei cominciò a parlare con un chiaro accento napoletano: "Che ci fai qui? Come sei entrato?", il tono non gli sembrò particolarmente ostile, vide che teneva una tazza con entrambe le mani, non indossava scarpe ma due calze spesse ed un po' troppo comode per la sua gamba fine, e probabilmente aveva una camicia da notte od un vestito da massaia anni cinquanta, il timbro della voce era grazioso, delicato, non doveva avere più di vent'anni, forse era più piccola. Lui allora cercò nel modo più gentile possibile di spiegare la sua situazione, per evitare reazioni violente, o impreviste, soprattutto se in quella penombra fosse venuto fuori all'improvviso qualche altro personaggio.

"Scusami, forse ho sbagliato, mi chiamo Lorenzo e cercavo Pasquale Macrì, vengo da Napoli perché...", non riuscì a finire la frase che lei subito intervenne cambiando tono.

"Ah tu allora sei il tipo che deve sostituire Angelo, vero?"

"Non so, penso di si, io so solo che il figlio di Pasquale si è rotto un piede e qualche giorno fa mi hanno chiamato per prendere il suo posto nella commedia, e poi mi ha dato questo indirizzo.". Lei si avvicinò ancora un poco per cercare di guardarlo in faccia, ed aggiunse: "Si, Angelo è il mio ragazzo, e si è fatto male saltando da un cancello, perché lo stavano rincorrendo dei mariuoli!". Lorenzo rimase un po' interdetto e non volle approfondire la dinamica dell'incidente, stava realizzando che quella era veramente la sede della compagnia e che il ragazzo era probabilmente solito avere a che fare con gente poco di buono. Un brivido gli attraversò la schiena e si ricordò le parole della madre gli attori so' muorte 'e famme, forse era ancora in tempo a chiamare veramente lo studio Abbamonte e mettersi a fare un lavoro serio e non il saltimbanco. La ragazza interruppe i suoi pensieri invitandolo ad accomodarsi con una certa civetteria ed aggiunse, continuando il discorso: "Vieni puoi lasciare la tua roba qui nella mia camera, tanto lui non c'è, è tornato a Napoli!", lo invitò a seguirla, la casa era piuttosto grande, e, dopo aver superato un corridoio con parquet che scricchiolava come nei migliori film dell'orrore, arrivarono davanti ad una stanza dalla quale veniva fuori un chiarore tremolante. Anche quella aveva le imposte chiuse e la luce veniva da un vecchio candeliere a sei bracci sul quale ardevano altrettante steariche. Lorenzo pensò che non vedeva tante candele tutte insieme accese dai tempi dell'infanzia quando nella sua casa al mare andava via la luce ed i genitori erano costretti in tutta fretta ad aprire il loro cassetto dell'illuminazione d'emergenza e tirare fuori cerini e stoppini di ogni genere mentre il nonno cercava di accendere il generatore che puntualmente faceva cilecca e ed impiegava almeno mezzora per partire. L'atmosfera era surreale, intima, tra quelle mura il silenzio era rotto solo dal raro sfrigolare della cera e delle sue impurità, sei sottili colonnine di fumo azzurrognolo si alzavano parallele e raggiungevano il soffitto disperdendosi come formiche davanti ad un pericolo, Lorenzo poté finalmente vedere in viso la sua inaspettata ospite, non capiva se fosse carina o meno, certo, la penombra è perfetta per celare i particolari indesiderati e creare chiaroscuri glamour, nessuno vuole troppa nitidezza in certi momenti, eppure i lineamenti erano regolari, un naso piccolo ed all'insù proiettava la sua ombra sulle pareti, forse aveva qualche piercing, sul labbro e ad una narice, dei capelli non poteva dire granché perché erano una specie di massa informe legata da una fascia spessa che scopriva il volto ma li costringeva in una coda di difficile gestione, anche perché non sembravano lisci ma annodati in mille treccine. Gli passò la tazza fumante per spostare il candelabro dicendogli: "Ti piace il tè? Bevi se ti va, ho una teiera piena di là!", lui rimase un po' imbambolato ed incerto se accostare le sue labbra lì dove si erano posate quelle della ragazza, lei si piegò per spostare il suo sacco a pelo e fare spazio allo zaino di Lorenzo, uno spacco del vestito scoprì la coscia di lei e nello stesso tempo un profumo di vaniglia e cioccolata arrivò alle narici del ragazzo. Lei si fermò, probabilmente accortasi che la stava guardando, si girò e con una posa impudica alzò la gamba destra poggiando il piede su una sedia, lasciando nuovamente nuda la coscia e mostrando parte di un tatuaggio che raffigurava un'animale, probabilmente una tigre. Lei gli ripetè: "Bevi, che aspetti!", lui obbedì in silenzio, annuendo, allora lei sorrise, gli tolse la tazza dalle mani e senza mai staccare gli occhi dai suoi bevve anche lei. "E' buono vero?". La sua voce gli sembrò una carezza, così come quella delle mani di lei, così sottili e delicate, che lo avevano sfiorato nel prendere il tè, quella sconosciuta così sfrontata lo turbava. Era appena arrivato a Roma e già gli sembrava di essere diventato il protagonista bohémien di un romanzetto rosa. Si scosse all'improvviso da quella specie di trance in cui rischiava di cadere e decise di reagire, non voleva essere una preda, la sirena era ammaliante, ma lui non era un marinaio. Discostando a fatica lo sguardo da lei e fissando la finestra chiusa le chiese: "Non mi hai neanche detto come ti chiami."

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