CAPITOLO DICIOTTO
Era iniziata la sua esperienza romana. Finalmente avrebbe potuto realizzare il suo sogno, e nulla lo avrebbe dissuaso. Era raggiante, senza più catene o controlli, si sarebbe buttato nella mischia. Arrivato in treno con una valigia mezza rattoppata, letteralmente - perché, nonostante il padre avesse voluto dargliene una nuova lui non aveva voluto separarsi dalla sua storica amica, compagna di tante avventure - rimase impressionato dagli spazi enormi della capitale e dal respiro imperiale che degli edifici e delle strade si avvertiva. Sembrava una città costruita per incutere soggezione al visitatore. Il tempo era bello, la stazione si ergeva dietro di lui e vomitava centinaia di persone al minuto affaccendate a prendere taxi al volo o correre in un bus od ad un appuntamento. Lorenzo non aveva fretta, era il suo momento e se lo voleva godere tutto, dall'inizio alla fine, nel caso ne avesse una. Si incamminò lentamente dal piazzale della stazione verso la piazza della Repubblica, aveva un bigliettino con un indirizzo dove recarsi, Silvana gli aveva detto che era piuttosto vicino anche al teatro sede delle rappresentazioni, ma a quanto pareva dall'altra parte del fiume. Sapeva di dover prendere un autobus per arrivare fin lì, anche se non ricordava bene se fosse il 64 o il 46, certo, bastava invertire le cifre ed il numero avrebbe fatto poca differenza, comunque non era dell'umore adatto per preoccuparsi di quelle banalità. Seguì la strada per qualche fermata sulla via nazionale, con la testa all'insù, come la maggior parte dei turisti, fermandosi volta per volta a controllare quali linee passavano ed a sbirciare curioso le vetrine degli innumerevoli negozi che si susseguivano, ogni tanto si affacciava quando gli sembrava di aver visto una una commessa carina, ma poi si allontanava velocemente e proseguiva tra la gente che affollava i marciapiedi. Si accorse immediatamente che la capitale era piena di turisti, di ogni colore e nazionalità, con voglia di conoscere la città eterna, provare la cucina romana, e alleggerire i portafogli con souvenir e acquisti capricciosi, lui non era tra questi, non si sentiva in vacanza, tutt'altro, era quasi un emigrante, un ragazzo in cerca di fortuna, con pochi soldi in tasca che avrebbero dovuto bastargli, e con un indirizzo. Mentre trascinava rumorosamente il vecchio trolley pensò che non aveva nemmeno pensato a dove avrebbe dormito, chi lo aveva chiamato, non aveva accennato a nulla in proposito, e lui non sapeva cosa aspettarsi, ovviamente ai suoi aveva detto che si era messo d'accordo con un suo collega per prendere un posto letto in un appartamento, ma la realtà era molto più nebulosa, magari avrebbe potuto accomodare per la settimana delle rappresentazioni a Roma e magari per qualche altro giorno finché il titolare della parte non si fosse rimesso, ma poi avrebbe dovuto organizzarsi da solo. Un passo alla volta, pensò, per ora doveva arrivare all'indirizzo fissato, lo rilesse, quasi per essere sicuro che se lo avesse perso lo avrebbe ricordato, e fissò a mente anche il numero di telefono che si era segnato sotto il nome di Silvana Minervini. Mentre fantasticava sulle varie possibilità notò l'arrivo del 64, si affrettò a raggiungere la fermata successiva che vedeva in lontananza, calcolò rapidamente che doveva essere facilmente raggiungibile, quindi accelerò il passo, l'autobus distava meno di un centinaio di metri ma un semaforo lo avrebbe probabilmente rallentato. Capì suo malgrado che le distanze romane erano superiori alle sue aspettative, e le strade larghe e dritte come quella che stava percorrendo producevano lo strano effetto ottico di comprimere le distanze e far apparire gli oggetti più vicini della realtà. Un po' come quando si va per la prima volta a Parigi e si decide di passeggiare attraverso gli Champs Elisée da Place de la Concorde pensando di raggiungere gioiosamente l'arco di trionfo: ci si ritrova dopo un'ora a metà deo tragitto seduti su una panchina a maledire l'idea e ad a massaggiarsi i piedi. Lorenzo realizzò con un certo ritardo la reale distanza che lo separava dalla fermata dell'autobus, e dovette esibirsi in una corsa all'ultimo respiro cercando di evitare di investire i passanti per riuscire a raggiungere il veicolo che si apprestava a ripartire. Ma non potette entrare, era pieno come una corriera indiana, la gente era talmente stipata che le porte trovarono difficoltà a richiudersi. Guardò l'autobus allontanarsi sbuffando ed ondeggiando, ma non fece in tempo a sedersi sulla panchina della fermata per recuperare un po' il fiato, che un altro 64 completamente vuoto si fermò davanti a lui. Sorrise scuotendo la testa per la sua ingenuità, evidentemente i mezzi pubblici di Roma, almeno quelli del centro storico, erano più frequenti di quelli di Napoli. Non c'era bisogno di affrettarsi troppo. Si alzò pronto ad entrare nel bus fermo davanti a lui, ma nei vetri delle portiere vide riflessa una immagine che lo catturò, si voltò per un attimo, tenendo sotto controllo il veicolo per non perdere anche quello, ma appena l'immagine che aveva colto con la coda dell'occhio gli si parò davanti nella sua interezza lasciò chiudere le porte senza scomporsi. Era fermo davanti al teatro Eliseo, e quello che aveva colpito la sua attenzione era il cartellone della settimana, avrebbero dato ............, la bella faccia di ........ e di ................sorrideva ai passanti affaccendati. Fissò l'ingresso del teatro, ed i vari cartelloni che pubblicizzavano le altre rappresentazioni e pensò: un giorno io sarò su uno di questi. Non sapeva come, né quando sarebbe accaduto tutto questo, ma sapeva che l'avrebbe fatto, sarebbe stata solo questione di tempo. Con gli occhi pieni dei sogni del suo futuro tornò alla panchina della fermata e stavolta lo accolse un 46 a porte aperte che rigurgitava decine di giapponesi. Lui fece spazio per permetterne la discesa ed alla fine prese posto in uno dei sedili centrali, equidistante dal conducente e dalla fine del veicolo. Cominciò così il suo personale tour della città, in un banale autobus urbano, sulla via nazionale, ma a lui non importava, il senso di libertà per aver scelto la sua strada lo riempiva di eccitazione, da quel momento in poi poteva sbagliare, essere felice, disperarsi, diventare pieno di soldi o vivere nella povertà, ma sarebbe stata una sua scelta, era ciò che aveva voluto, essere lui e la sua vita su un palcoscenico. Nessuno avrebbe potuto più mettersi in mezzo alle sue scelte, almeno così credette in quel momento. Il bus intanto passò davanti a piazza Venezia e Lorenzo fissò in mente la vista maestosa dell'Altare della Patria ed alla sua sinistra l'immensa via dei Fori Imperiali, poi salutò palazzo Venezia, e pensò a tutti i personaggi che avevano lasciato una traccia profonda nella storia italiana che si erano affacciati da quel balcone, da Mussolini a Berlusconi. Sorrise pensando all'accostamento tra le due figure entrambe piuttosto discutibili, che avevano segnato in modo diverso la vita dei cittadini del loro tempo. Una signora molto gentile gli indicò che la fermata successiva sarebbe stata quella sua, Largo Argentina, l'indirizzo di destinazione non era esattamente quello, ma non resistette a dare uno sguardo al suo teatro, quello che lo avrebbe accolto per la prima volta nella capitale. Scese in in una specie di piazza, con un tram verde che partiva, un frenetico via vai di auto, e degli scavi lì in bella mostra, si guardò intorno per trovare il teatro, ma notò una libreria, un bar, una fermata del tram, un semaforo, restò deluso per qualche istante poi alzò lo sguardo e vide l'insegna, era esattamente alle sue spalle, il Teatro Argentina, lo salutò con un inchino, era piccolo, almeno così gli sembrava dall'esterno, ma già gli dava quella sensazione di stretta allo stomaco che tanto ben conosceva ed amava. Non vedeva l'ora di calcare quelle tavole, vide le foto ed i cartelloni appesi, e si stupì di non vedere il nome della compagnia o i volti di Pasquale e Silvana, ma poi pensò che lui non era certo un fisionomista e poi non li vedeva da un po', quindi magari, complice il trucco da palcoscenico non li aveva riconosciuti, certo, i loro nomi non c'erano, comunque, non si fece altre domande e si avviò allegramente verso il fiume per passare dall'altra sponda ed incontrarli. Lì gli avrebbero tolto ogni dubbio.
Dovette fare a piedi quasi due chilometri, tirandosi dietro la valigia, per fortuna il panorama era degno della capitale, quindi la passeggiata fu piacevole, ma si disse che non avrebbe mai più chiesto delle indicazioni ad un romano, perché la loro unità di misura era molto lontana dal sistema internazionale, probabilmente date le distanze dilatate, un metro per loro equivaleva a dieci di un abitante di qualsiasi altra città italiana, motivo per cui lui era stato costretto ad una mezza maratona dopo che una gentilissima barista masticante gli aveva detto: "E' qua dietro!". Imparò a sue spese che il qua dietro romano è una delle indicazioni più fuorvianti che si possano ricevere, prevede una distanza media di cinquecento metri, fino ad arrivare anche oltre i tre quattro chilometri. Pensò quasi che fosse un modo per affermare la superiorità del popolo romano sul barbaro. Alla fine della sua camminata, con i piedi che gli dolevano finalmente si trovò davanti ad una specie di villa, in mezzo ai palazzi, un cancello verde grande ed uno più piccolo indicavano l'accesso all'abitazione, che però non mostrava segni di anima viva al suo interno, cercò di trovare un citofono o un campanello, ma non notò nulla, alzò lo sguardo per cercare una luce che trapelasse da una finestra, ma sembrava tutto spento, le avvolgibili erano abbassate ed un silenzio sinistro ovattava quelle mura. Rimase circa dieci minuti fermo a scrutare e studiare l'abitazione, poi piano piano cominciò a notare strani particolari che gli fecero venire più di un dubbio, in primo luogo le terrazze non sembravano ben tenute, le tettoie, i vasi e le piante erano in pessime condizioni, una Buganvillea aveva preso il sopravvento sulle opere umane, ed aveva avvolto parte delle ringhiere e metà di una finestra. Il ferro battuto delle grate a protezione delle finestre era mangiato da una ruggine aggressiva che non aveva avuto evidentemente una controparte altrettanto decisa da anni, così come l'acciottolato del vialetto che portava dalla strada alla soglia di casa, si riconosceva a stento in mezzo all'erba che era cresciuta disordinata e rigogliosa. "Non può essere questa, è una casa abbandonata!" disse ad alta voce tra se Lorenzo mentre notava che il sole cominciava ad abbassarsi ed un colore rossastro si spandeva tutto intorno. Fermò un signore che stava portando un cane a passeggiare e, immaginando che fosse della zona, gli chiese informazioni della casa e lui infastidito, per tutta risposta gli sentenziò "Che voi sapè, se ce so' i fantasmi? Nun ci 'o so, io glie sto alla larga, nun me fermo manco a far piscià er cane!". E così dicendo lo lasciò lì impalato. "Delicatissimo!", commentò tra se seguendolo con lo sguardo mentre si allontanava, poi si accorse di essere stanco, era in viaggio da un bel po', in mezzo alla strada da ancora di più e non aveva ancora mangiato un boccone. Si appoggiò al grande cancello verde per riordinare le idee e capire il da farsi, ma non ne ebbe il tempo, sentì muoversi il terreno sotto di lui, poi realizzò che in realtà era la schiena che lentamente ma inesorabilmente si stava spostando all'indietro. Come in un film al rallentatore si ritrovò per terra sul vialetto d'ingresso della villa, il cancello si era aperto cedendo al peso del suo corpo e lui era atterrato dolcemente sull'erba alta. Si rialzò, si scosse le foglie ed il terreno dai vestiti e guardò davanti a se indeciso. Che fare pensò, andare avanti e scoprire la verità o tornare indietro?

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Stelle Gemelle
RomanceDue ragazzi. Due anime. Due corpi. Lorenzo e Claudia. Nati l'uno per l'altra. Si conoscono, tra i banchi dell'università, diventano amici. Molto amici. Condividono gioie, amori, emozioni. Lui, studia per compiacere il padre, uomo all'antica, che non...