Scrivere è, semplicemente, il mio unico rimedio all'esistenza.
È sempre stato così, fin da quand'ero bambina e mi chiedevano che cosa
desiderassi per il futuro: scrivere romanzi e incontrare un grande amore,
rispondevo io.
E per un bel po' di anni sembrava che i miei due desideri si fossero avverati.
Un giorno, però, Mio Marito se n'è andato. Lì per lì ho avuto la sensazione che
si fosse portato via, assieme a tutta me, anche la scrittura. Tanto più senza la
Mia Rubrica che mi aiutava a scandire il tempo, durante la giornata, e che mi
consentiva di arginare i mostri fra la testa e il cuore per confinarli, appunto, nei
romanzi.
Di colpo i mostri, sguinzagliati, hanno invaso tutto. I sogni, i pensieri, le
gambe, le braccia, il caffè.
"Non scriverò mai più, mai più," ripetevo a Gianpietro tutte le mattine,
quest'estate, quando mi ha trascinata a Formentera.
Ma poi è arrivata quella mattina. Dove misteriosamente ho sentito che non
faceva più così tanto male là dove faceva male. O che forse, ormai, a quel dolore
mi stavo abituando. E che in un modo o nell'altro, insomma, potevo andare
avanti.
Forse lo stavo addirittura già facendo.
Il giorno dopo, nella veranda della casa di Formentera, ho provato ad aprire di
nuovo il computer: l'idea di due donne che al supermercato si spiano la spesa a
vicenda e appendono l'una al carrello dell'altra la propria insoddisfazione mi
bussava dentro da prima dello sfacelo. Ho provato a rimettermi in ascolto.
Bussava timida, inizialmente, bussava piano, l'idea. Comunque scrivevo. Anche
solo per fare una cosa. Per fare quella cosa. L'unica capace di mettermi nelle
condizioni di dire "io", mentre mi riferisco a me. L'unica capace di
riconsegnarmelo, quell'io. Pure se lacerato e rimbambito com'era, com'è.
Anche grazie al giorno dello smalto fucsia e all'ispirazione che mi ha regalato
Cristina del centro estetico con l'immagine del sottovuoto, nonostante continui a
non avere più una vita, almeno il nuovo romanzo c'è.
Magari sarà una schifezza, però lo sento, mentre lo scrivo.
E questo per ora mi basta.
Qualche giorno fa ho spedito la prima metà a Giulia, la mia editor, che oggi mi
ha telefonato per cominciare a ragionare sul titolo.
"Sei sicura di volerlo intitolare Quattro etti d'amore, grazie?"
"Sì. Il punto è proprio quello, no? Le due protagoniste implorano, ognuna a
modo suo, un po' d'amore. Non tanto: poco. Nemmeno mezzo chilo. E sono
disposte perfino a ringraziare chi glielo offre."
"Certo, certo. E poi c'è la metafora del supermercato, che così arriva subito.
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Random© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione nella collana “I Narratori” novembre 2013 ISBN edizione cartacea: 9788807030710 A Yab, per tutti i minuti del suo futuro In ogni essere umano esistono facoltà latenti attraverso le quali egli p...