28 dicembre, venerdìalba 7.37 - tramonto 16.47vorrei, vorrei

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Gianpietro trascorrerà il Capodanno dal suo nuovo fidanzato: non quello con

cui siamo stati quest'estate a Formentera. Un altro. Quello giusto, secondo me.

Anche gli ultimi tarocchi che, a modo mio, gli ho fatto ieri, prima di andare a

dormire, lo dicono: o almeno ho interpretato così le carte del Sole, della Ruota

della Fortuna e del Mondo che ha pescato, una dopo l'altra. Ma lo dicono

soprattutto gli occhi di Gianpietro mentre ne parla. E il fatto che lo chiami al

maschile: Mikhail. "Fa l'ingegnere, è russo," si è limitato a raccontarmi. È

bastato. Non è russa: è russo. Non fa l'ingegnera: fa l'ingegnere. C'è finalmente

qualcosa di diverso dal solito, sotto. C'è finalmente qualcosa.

Tanto che oggi Gianpietro lo raggiungerà a Firenze, dove si sono trasferiti i

suoi nonni, e passerà gli ultimi giorni dell'anno lì. Con i nonni di Mikhail.

Lo accompagniamo alla stazione e, quando il treno si allontana, Ato fa la sua

faccia da lunedì mattina.

Stamattina anch'io mi sono svegliata particolarmente di cattivo umore: non

solo per la partenza di Gianpietro e per la misteriosa telefonata di Pisacane, ma

anche perché ieri era una settimana da quando ho incrociato, per l'ultima volta,

gli occhi gialli di Mio Marito, da quando ho ascoltato la sua voce pastosa, da

quando ho respirato l'odore per sempre familiare della sua giacca, della sua

macchina.

E oggi è una settimana e un giorno.

Il tempo passa, insomma, e lui no. Non passa.

E nemmeno mi chiama per dirmi ci ho pensato, sai.

Torniamo insieme. Davvero e per sempre.

Però non riesco a chiamarlo nemmeno io, per dirglielo.

Torniamo insieme. Davvero e per sempre.

"Guarda, Chia': un albero bello come il nostro," dice Ato, indicando l'albero

gigante che ogni anno troneggia di fronte alla stazione Termini.

Qualche giorno fa, troppo preso dall'arrivo della zia Piera, non l'aveva notato.

Ci avviciniamo. Naturalmente è di gran lunga più maestoso del nostro. È un

abete vero, alto e svettante. Da ogni ramo penzolano grappoli di bigliettini. Ne

leggo un paio: sono le preghiere per l'anno nuovo che chiunque passi di qui ha

nel cuore, scrive e poi appende.

E siccome oggi è proprio questo che mi manca, una speranza qualsiasi, chiedo

ad Ato: "Mi tieni il tempo?".

Non ho più nemmeno bisogno di specificare quanto, naturalmente.

Comincio a leggere a voce alta.

Vorrei che la Roma vince 'sto scudetto o almeno arriva in Champions o

comunque che Francesco batte 'sto record.

Che il nuovo anno doni ai ricchi la capacità di capire che non è bello essere

ricchi in un paese dove regnano la povertà e la precarietà.

Un pisello per la prof di matematica, così si placa.

Che Luca rimane sempre come è adesso.

Che mi cambi la vita.

Essere in regola con gli esami.

Una fracca di soldi per girare il mondo.

Che muoiono tutti i politici.

Avere le ali.

Un anno sessualmente attivo.

Ho distrutto tutto quello che avevo nell'arco di una notte, vorrei per favore

riaverlo.

Bella, 2013.

Una ragazza per starci insieme: se me la trovi, falla chiamare al

3663135794.

Baby amore pipì e popò e Monopoli.

Che zio Antonello guarisce.

That my family in Vietnam is always happy.

Un bel ragazzo musicista (basta coi rapper di cacca).

Il mio equilibrio.

Che Manuel smetta di rompere il cazzo a Sabrina.

Da oltre dieci anni vengo cacciato via da tutti i domicili abitativi, da tutti i

contesti di lavoro, non ho più nulla, non mi fare finire sul marciapiede.

Yamete yamete.

Che Michael Jackson torna.

Ato mi fa segno che i dieci minuti sono passati.

"E tu?" gli chiedo, allora. "Che cosa vorresti, dall'anno che arriva?"

"Ritrovare la mia famiglia," risponde, senza bisogno di pensarci. "E tu?"

"Più o meno anche," rispondo.

Ato sgrana gli occhi, come se stesse per scoppiare a ridere o magari a

piangere, non si capisce, e: "Ma tu ce l'hai, Chia'. Hai tua mamma. Tuo papà.

Tuo fratello," dice. Non come per dire brutta imbecille, come fai a paragonare

la tua situazione alla mia. Come per dire, proprio: tu ce l'hai, Chia'. Pensa che

fortuna.

E gli occhi di moquette nera gli si riempiono di polvere.

Lo stringo a me, come non faccio mai, tanto m'imbarazza il suo imbarazzo per

qualsiasi esternazione d'affetto, e gli sussurro in un orecchio: "Ce l'hai anche tu

una famiglia. Hai Pisacane, hai la Città dei Ragazzi. Hai me. Hai la zia Piera".

Non è la stessa cosa, pensiamo all'unisono.

Ma nessuno di noi due lo dice.

Ce ne siamo grati.

per dieci minutiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora