2 gennaio, mercoledìalba 7.38 - tramonto 16.50un figlio, diciamo

17 0 0
                                    

Carmine Pisacane mi guarda, al di là della sua scrivania, nello studio dei

responsabili della Città dei Ragazzi.

Poi guarda fuori dalla finestra: Ato sta giocando a calcio, con i suoi

concittadini, nel campo della Città.

"Sembra sereno." Sorride. "Mi ha detto che ha passato un Natale bellissimo.

Così ha detto: bellissimo."

Pisacane, al solito, trasmette una grande serenità. È pacioso, ciarliero, mi ha

parlato del veglione di Capodanno alla Città, dell'Inter, dell'ultimo concerto di

Bruce Springsteen.

Io invece sono tesa. Molto tesa. E appena, finalmente, attacca a parlare di

Ato, non resisto più: "Che cosa succede?".

Pisacane continua a sorridere: "Niente, Chiara. Non succede niente. Niente di

grave, almeno. Stia tranquilla".

"La sua telefonata mi ha messo in agitazione."

"Mi spiace. C'è una cosa di cui dobbiamo parlare: è vero. Ma potrebbe anche

risultare una buona opportunità."

"Cioè?"

"Cioè, come lei sa, la Città accoglie ragazzi dai dodici anni in su, e quando

diventano maggiorenni dovrebbe trasferirli negli alloggi per immigrati o metterli

nelle condizioni di trovare un lavoro e, di conseguenza, un posto dove stare,

magari in affitto."

"Sì."

"A volte facciamo delle eccezioni, come nel caso di Ato. Presto avrà

diciannove anni, ma, data la sua situazione, avevamo stabilito di occuparcene

finché non avrebbe finito le superiori."

"Sì." Sì. Non capisco dove Pisacane voglia arrivare e riesco solo a dire "sì".

"La Città dei Ragazzi, però, ha le sue regole."

"Sì."

"Tanto più per un cittadino come Ato, che ha superato il limite d'età, queste

regole vanno rispettate. C'è bisogno di collaborazione, di presenza. È

fondamentale partecipare alle assemblee, alla vita di tutti i giorni."

"Sì."

"No."

"Come 'no'?" mi risveglio.

"Da quando Ato frequenta casa sua, è spesso assente. Quasi sempre, il lunedì

rimane da lei. I concittadini e gli educatori lo notano. Così come hanno notato

che, durante queste vacanze, Ato non si è mai fatto vedere."

"Mi perdoni. È anche colpa mia se il lunedì Ato rimane da me, anziché

tornare." Abbasso lo sguardo. Ripeto: "Mi perdoni".

"Perdono? Colpa? Chiara, il punto non è questo."

"E allora qual è?" Perché io, davvero, non lo capisco.

"Il punto è che Ato deve prendere una decisione. Vuole continuare a essere un

cittadino? O vuole uscire dalla Città dei Ragazzi?"

"O dentro o fuori, insomma. Se sta sulla porta blocca il traffico. Certo," penso,

a voce alta.

"Cosa?"

"Niente, niente."

"Chiara." Pisacane improvvisamente ha di nuovo il tono che aveva per

telefono. "Chiara," ripete. E poi: "Se la sente di prendere Ato a vivere con sé,

almeno fino a quando non arriverà al diploma?".

"Ato? Con me?" Ato. Con me.

"Il ragazzo sicuramente ha fatto progressi enormi, da quando la frequenta. È

più disinvolto, meno chiuso nel guscio del suo dolore, delle sue elucubrazioni. Se

posso permettermi, credo che anche lei sia molto legata a lui e mi sembra

rafforzata da questa relazione."

"Lo sono." Pisacane sa, naturalmente, che cosa mi è successo nell'ultimo anno:

raccontarglielo è stata una condizione fondamentale, perché fosse possibile un

patto di fiducia fra noi e perché Ato venisse a stare da me, nel fine settimana.

"Non cambierebbe molto, nei fatti, se Ato si trasferisse a casa sua. Già si

occupa di lui a livello economico." È vero. "Ato è indipendente, ha quasi

diciannove anni: prendersi cura di lui non sarebbe come prendersi cura di un

bambino che ha bisogno di tutto, per sopravvivere. Però sarebbe comunque una

responsabilità. Un'enorme responsabilità. Sarebbe come avere un figlio,

diciamo. Un figlio grande, svezzato. Ma comunque un figlio. Se la sente?"

per dieci minutiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora