12. The Georgian

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La sala da pranzo era avvolta dal dolce profumo di tè e di biscotti appena sfornati. Lucius sedeva in solitudine al proprio posto, il giornale aperto davanti a sé e gli occhi che saltavano da una notizia all'altra senza soffermarsi su nessuna di esse in particolare. Quella mattina nemmeno i titoli sensazionalistici della Gazzetta riuscivano a distrarlo. Del resto, di parole ne aveva abbastanza. Aveva trascorso tutta la notte a sistemare le carte sulla scrivania per sfuggire al tormento di ciò che gli aveva detto Bellatrix, ma stavolta neppure l'antico rimedio del lavoro era riuscito a salvarlo; questo aveva contribuito ad aggravare la sua insonnia. Nemmeno il gioco di luci prodotto dai raggi del sole che filtravano dalle grandi vetrate alle sue spalle era stato in grado di risollevargli l'umore. Anzi, i colori vivaci di quella danza quasi lo infastidivano.

Tutto questo non doveva essere sfuggito all'elfo, dal momento che era dalle sei che continuava a sfornare pietanze senza sosta per la colazione.

All'ennesimo piatto di muffin alle bacche balzerine Lucius sbottò.

«Direi che può bastare, Dobby. Vattene prima che ti costringa a ingurgitare uno per uno questi dannati dolci». Con un debole squittio l'elfo lasciò la stanza.

Insieme ai muffin, Lucius notò che aveva portato anche la posta. Afferrò le lettere di malavoglia e prese a controllare rapidamente i mittenti, giusto per farsi un'idea di quali scocciature avrebbe dovuto affrontare una volta tornato a casa. Per poco il tè non gli andò di traverso quando gli occhi gli si incastrarono sul nome elegantemente apposto sull'ultima busta. Era di Zabini, e come destinataria compariva il nome di Narcissa. Per non destare sospetti la sua corrispondenza veniva ufficialmente spedita all'indirizzo del Sanctuary; dopodiché, come da accordi, il direttore dell'albergo provvedeva a reindirizzare le lettere a Villa Malfoy. Finora nessuno, a parte il cugino minore Regulus, le aveva mai scritto. D'istinto le mani di Lucius si contrassero sulla carta, lasciandovi impressa una piega di rabbia che tagliò in due il nome di Zabini.

«Buongiorno». La voce soave di Narcissa che faceva il suo ingresso nella sala da pranzo per poco non lo fece cadere dalla sedia.

«Ci siamo moltiplicati nel corso della notte e non me ne sono accorta?» commentò lei con ironia, indicando con un cenno del mento la tavola straripante di cibo.

«Buongiorno».

In un attimo, Lucius aveva recuperato l'abituale postura composta. Intanto Narcissa avanzava verso la tavola per accomodarsi accanto a lui. L'abito di chiffon blu oltremare, col bustino aderente e la gonna lunga e ampia, ricordava le morbide forme di un peplo. Anche l'acconciatura, semplice e austera, riprendeva un gusto arcaico, con la parte superiore dei capelli raccolta in cima al capo e il resto della chioma lasciata libera di solleticarle la schiena. In un istante la sua figura catturò tutta la luce nella stanza, riflettendola nel suo sorriso.

Nonostante la rabbia che gli girava a vuoto nella mente simile a una bestia in gabbia, Lucius non poté fare a meno di notare che era splendida. Per un attimo, provò perfino l'illusione che tutta quella bellezza avrebbe potuto contagiarlo; osservarla era un po' come intravedere uno squarcio di paradiso tra le fiamme scure dell'inferno. Ma si trattò solo di un attimo. Stando alle parole di Bellatrix, se Klaus e Narcissa erano stati così innamorati da voler convolare a nozze, ora che l'unico ostacolo al loro amore era scomparso niente avrebbe potuto impedire il coronamento del sogno di due anni prima. E lui non avrebbe potuto farci nulla. Aveva deciso di esserle amico, no? E da amico si sarebbe comportato. Con un incredibile sforzo distolse lo sguardo dal viso serafico di Narcissa per ricondurlo davanti a sé, sul piatto intonso. Se voleva mantenere fede alle proprie promesse doveva cominciare con lo schermarsi dalla sua bellezza. Sarebbe stato sufficiente concentrarsi sugli impegni della giornata, ed evitare a tutti i costi di inciampare con lo sguardo sul profilo perfetto di quella dea che aveva deciso di tormentarlo mostrandogli la propria grazia senza tuttavia concedergliela.

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