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Avevamo sistemato tutto, tavoli e sedie al loro posto, il divano nell'ufficio di Marzio, le panche dove diavolo erano state prese. I dolci avanzati vennero spartiti.

Ci stavamo infilando i cappotti quando Damien si avvicinò a Flavia: «Accompagno io Ginevra a casa stasera». Lei fece un'espressione raggiante per poi borbottare subito: «Ecco, bravo, prenditela va'». Andando via fece espressioni ammiccanti come se lui non fosse presente. Era folle. Completamente avvolta nella sua follia, convinta che fosse merito suo e di quello che aveva raccontato a tavola. Magari era anche vero.

A me invece non aveva neanche chiesto se avessi qualcosa in contrario.

«Andiamo? Dai, così avrai un motivo in più per ucciderla domani.»

Lo fissai muta, avrei risposto "Sì" ma non volevo dargliela vinta. Però lo seguii senza obiettare. Salutammo velocemente chi era rimasto e, chiudendoci la porta alle spalle, ero ben sicura che ci sarebbero stati dei grandi commenti.

Entrai in auto, trovando strano il fatto di sentirlo quasi naturale, come se non fosse più un territorio straniero.

Lui si tolse il cappotto e lo sistemò sui sedili posteriori, poi entrò dal lato guida. Avrebbe così lasciato scoperto quel collo stupendo che mi attirava a sé. Non lo dovevo guardare.

Girò la chiave per accendere il motore, con un dito azionò il riscaldamento e poi la radio, tenendola bassa.

«Allora, c'è qualche altra cosa che devo sapere su di te?» terminò la frase guardandomi negli occhi, con un leggero sorriso disegnato sulle labbra.

«No, penso che Flavia abbia detto tutto», cercai di sostenere il suo sguardo.

«Sembrava avesse altro da raccontare...», continuò lui facendo retromarcia.

Si immise sulla strada e iniziò a guidare con più sicurezza rispetto alla volta precedente.

«Dove andiamo? A casa mia non c'è bisogno, tanto sai già dove abito», alludendo a quello che aveva raccontato Flavia sul trentacinquenne al quale facevamo le poste sotto casa. Si stava divertendo.

«Beh, certo, se solo provassi interesse per te», sospirai.

Fece un'espressione offesa.

Poi iniziò a parlare della cena, partendo dagli antipasti per finire ai dolci di mia madre. Disse di non averne mai mangiati così buoni, ma non gli credetti. Lo osservavo gesticolare con le sue splendide mani, con le quali mi indicava la forma di qualcosa che aveva assaggiato di cui non ricordava il nome. Speravo solo non mi chiedesse perché non avessi mangiato nulla.

A un certo punto rallentò e accostò, senza spegnere il motore. Mi resi conto di non sapere dove fossimo, né della strada che avevamo percorso. Guardai l'ora sul cruscotto, erano trascorsi circa venti minuti.

«Quella è casa mia», mi indicò una palazzina circondata da un giardino.

«Lo so», annuii seria. Lui mi studiò per un attimo e io mi misi a ridere. «Paura, eh?»

«Vuoi entrare?»

«No», scossi subito la testa. Forse troppo, potevo sembrare spaventata ma avevo paura di me, non di lui.

«Non è per provarci...»

«Magari fosse così!»

«Non vale! Non puoi parlare italiano, io non ti capisco!» Feci spallucce. «Sei stata tu a dirmi di non impararlo!» mi accusò con aria contrariata.

GinevraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora