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In auto non mi diede il tempo di infilarmi la cintura.

«Andiamo da me?»

Lo guardai stupita, forse allarmata, subito imbarazzata.

«Non dobbiamo per forza... basta che stiamo insieme. Rimani a dormire da me.»

Mi misi a ridere. «Certo, poi domani torno a casa vestita come stasera.»

«Domattina alle 10 ti faccio trovare un cambio completo.»

Rimasi un attimo a fissarlo poi guardai fuori, indispettita.

«Sicuro, chi chiami, Nicholas?» con un tono acido, scossi la testa. «È proprio questo che intendo: tu schiocchi le dita e...»

«Ok, ok. Allora torna nuda, torna vestita così, mettiti una mia camicia... ma rimani stanotte da me.»

«Che senso ha?»

«Smettila di razionalizzare qualsiasi cosa! Sembra sempre che tu debba trovare una spiegazione per poterla riferire agli altri», sbatté i polsi sul volante.

«L'unico che parla con gli altri qui sei tu. Io la spiegazione la devo dare solo a me stessa.»

«Ti prego non discutiamo,» di nuovo calmo, «vorrei solo andare a casa mia e stare con te come siamo stati in mezzo a tutta quella gente. E quando non ce la faremo più a stare in piedi, immagino di sdraiarci sul letto e svegliarci domani mattina, fare colazione e stare insieme tutto il giorno e desidererei continuare così all'infinito. Questo è il mio senso.»

Rimasi senza parole.


Il mio mutismo fu preso per un "sì". Per fortuna, paracula, avevo avvertito mia madre che probabilmente avrei dormito a casa di un'amica del coro. Non che sperassi ci credesse veramente, ma tanto per salvare la faccia. E non lo avevo fatto pensando che la serata finisse così, lo speravo solo. Anzi no, solo una parte di me lo sperava, quella stupida e cretina che avrebbe dovuto mettere almeno un paio di mutande pulite e uno spazzolino in borsa e che non lo aveva fatto.

Appena entrammo a casa sua, senza aver scambiato una parola, posò le chiavi sul mobile, accese lo stereo col telecomando, si girò verso di me e mi tolse la giacca di dosso. Poi mi si attaccò a ventosa. Io mi sentivo la testa vuota, o forse piena di una densa foschia, inebriata da lui che non mi faceva capire nulla. Il suo profumo che mi tormentava da mesi, l'addome caldo e definito, le braccia forti e rassicuranti, il bacino stretto e virile. Il mio corpo percepiva ogni cosa, lo studiava, memorizzava.

Iniziò a baciarmi sul collo facendomi buttare indietro la testa, poi con le labbra percorse il mio viso, soffermandosi davanti alla bocca. La sfiorò con la lingua. Dio, che sensazione. Un fuoco si sviluppò nel mio ventre, le fiamme arrivarono ai lombi e poi su per la schiena, fino al collo. Poi freddo, necessità di averne ancora. Lo feci fare, non dovevo, ma lo feci fare. E continuò finché non prese a baciarmi le labbra e a morderle, a cercare la mia lingua con la sua.

D'un tratto rinsavii, mi staccai e per l'ennesima volta: «Niente baci». Lui non se la prese e iniziò a scendere sul collo ma, visto che non mi smentivo mai, gli presi il viso con entrambe le mani e lo baciai appassionatamente. Non potevo, non riuscivo a fermarmi. Come facevo? Era lì, disponibile, non stava vomitando per avermi baciata, sembrava non provasse repulsione per me, perché scansarlo? La foga stava aumentando e lui iniziò a far risalire le sue mani dal mio sedere fino al seno dove soggiornarono per un po', appena sentii che stava abbassando la scollatura, gliele presi e le accompagnai giù. Ma capì male. Iniziò a sollevarmi la gonna e, visto la lunghezza che si misurava in millimetri e non in centimetri, era già quasi arrivato nel posto in cui pensava lo volessi portare.

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