6. ALEX

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«Una Coca anche per me»

Mentre mio padre finisce di ordinare io mi guardo intorno.

Per essere un fast food all'ora di pranzo non c'è molta gente, anche se quello immagino sia dovuto al tempo. La giornata era iniziata con un bel sole ma nel giro di poco tempo il cielo si è riempito di nuvole, e qualche ora più tardi la piaggia ha iniziato ad inondare le strade.

Poca gente, tra cui me e mio padre, ha deciso comunque di uscire di casa e sfidare il meteo avverso.
Ma del resto, sono talmente poche le volte che posso vederlo al di fuori del contesto scolastico che non posso proprio dire di no ad un pranzo fuori.

La cameriera riprende i nostri menu con un sorriso, ed entrambi la ringraziamo cordialmente prima di lasciarla andare via.

«Allora» comincia lui, tamburellando le dita sul legno con aria pensosa «Come vanno gli allenamenti?» chiede, portandosi una mano sul viso per grattarsi l'accenno di barba appena ricresciuta «Hanno una bella pista vero?»

Annuisco piano «Sì, decisamente meglio di quella della Dartmouth. Quella sì che era orribile» dichiaro, arricciando il naso al ricordo delle cadute rovinose per colpa di quel ghiaccio frastagliato. Dio, quanto la odiavo «Gli allenamenti vanno bene papà', come al solito» aggiungo poi con un'alzata di spalle.

«Hai più ripensato all'idea di tornare a gareggiare?» domanda a bruciapelo, cogliendomi alla sprovvista.

Non è la prima volta che me lo chiede, ma nonostante io gli abbia già detto come la penso in svariate occasioni, ogni tanto decide di ritentare. Di vedere se ho cambiato idea.
Ma è una cosa che non accadrà mai.

Ingoiando a vuoto, mi sforzo di sembrare più tranquilla possibile «Ogni tanto ci rifletto» mento, se non altro per dargli un piccolo contentino «Ma la cosa più importante per me adesso, è concentrarmi sullo studio. E non potrei farlo se dovessi riprendere in mano la carriera del pattinaggio»

Un'altra bugia. O almeno in parte.

Mi piace studiare, ma non è per questo che ho deciso di smettere di pattinare a livello agonistico.

Una volta amavo gareggiare.
La sensazione di stare sotto i riflettori, l'aria che s'infiltrava tra le mie dita e nel mio costume durante un salto o una piroetta. La velocità, il batticuore... la libertà che mi dava questo sport.

Poi, crescendo, ho cominciato a notare tutta una serie di cose che con il tempo sono diventate insostenibili. La competizione tossica, la dieta forzata, la corruzione, i sabotaggi... era troppo. Tutto quanto. E quando ho deciso di uscire da quel mondo, è stato sia un sollievo che una pugnalata nel petto. Un alone dolce-amaro che mi è rimasto attaccato al cuore. Che ancora oggi batte per quella passione mollata lì, come un vecchio soprammobile impolverato.

Mio padre mi guarda in silenzio per un lungo attimo, come se stesse analizzando le mie parole in cerca di un significato nascosto.

La cameriera sceglie proprio questo momento per tornare, ed io non posso che essergliene grata mentre la osservo posizionare inostri piatti al centro del tavolino per poi allontanarsi di nuovo.

Passano diversi secondi prima che mio padre si decida a parlare.

«È un vero peccato» dichiara, stringendo le labbra e facendo scivolare uno dei due piatti dalla sua parte «Potresti almeno prendere in considerazione di farti allenare da qualcuno?»

«In realtà non credo che abbia sens...»

«Ho già trovato una persona che potrebbe farlo» mi interrompe, proseguendo senza ascoltarmi «Potrebbe stare ai tuoi orari e continuare a...»

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