EPILOGO 4: ISLA

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2029 - Roma


«Sono 67.80 euro. Ha con sé il codice fiscale?»

Sentì vibrare il telefono nella tasca posteriore dei jeans e mentre aspettava che l'anziana signora di fronte a lei trovasse la tessera sanitaria tra le mille sporte che aveva appese al braccio, Isla lanciò un occhio allo schermo.

Sono tornato. Stasera sei libera? Stacchi alle 19?

Gli rispose rapidamente con un semplice ok, e tornò al suo lavoro in una nuova trepidante attesa. Quel pomeriggio le ore parvero passare con estrema lentezza, Elias le chiese due volte se non stesse bene e le passò sotto banco una pasticca al propoli.

Le 19 arrivarono, salutò suo padre e gli ricordò che non ci sarebbe stata per cena. Dopodiché svoltò l'angolo e se lo ritrovò davanti. Come mille volte prima, e come altre mille volte dopo.

Niente era andato davvero come Isla aveva preventivato, eppure alla fine tutto aveva trovato un modo per incastrarsi e continuare a funzionare. 

Lei era sopravvissuta. Non era diventata un'artista. O perlomeno non stava studiando per diventarlo. 

Puoi sempre esserlo, le ripeteva sempre Viola. Ma Viola era piena di talento, Viola era facile da amare e Viola non aveva mai avuto quella fame insaziabile che aveva lei. Lei ed Aki, ma Aki aveva Viola. Che forse aveva saziato quella fame, o forse semplicemente gli aveva donato la serenità necessaria a trasformare quella fame, da un buco nero di insoddisfazione e rimpianti a propellente per aspirare a qualcosa di più e migliore per sé.

Viveva ancora con i suoi genitori, l'unica dei quattro. La piccola di famiglia. Un tempo avrebbe fatto la lotta contro tutto e tutti per staccarsi di dosso con i denti e con le unghie quell'etichetta che l'aveva tenuta al riparo e soffocata così a lungo. Ora ci era scesa a patti e ci aveva fatto un nido nella consapevolezza che sarebbe sempre stata l'ultimogenita, l'unica femmina, la più giovane, forse la più amata e anche la più dimenticata.

Quando lo vide, dovette schermarsi gli occhi dal sole per poterlo mettere a fuoco. Stesso sguardo sbruffone, stessa smania di voler apparire allo stesso tempo pieno di sé ma con quell'aspetto da ragazzo della porta accanto uscito da una rom-com che aveva floppato al botteghino nonostante l'attore fosse figo.

«Milo», lo salutò.

«Greta», ghignò lui, prima di agguantarla per la tasca dei jeans e trascinarsela tra le braccia. La stritolò in un abbraccio per non lasciarle scampo, e la sentì poco a poco ammorbidirsi e modellarsi contro il suo corpo.

Forse era quello il segno più grande di quanto le cose fossero cambiate, rimanendo comunque simili. Lei era ancora Isla Hirvonen, femminista, vegetariana, senza patente. Si arrabbiava ancora con troppa facilità, e prendeva tutto troppo a cuore. Aveva ancora la lingua troppo tagliente che spesso parlava senza dare il tempo al cervello di frenarla.

E aveva ancora Milo. 

Non in senso letterale. Non aveva Milo in quel senso da anni, da quando avevano finito il liceo e avevano deciso di finire anche quella giostra da voltastomaco che era stata qualunque cosa ci fosse stata tra di loro. 

Milo che invece era un artista. Che viveva da solo. Viaggiava. Passava la notte con ragazze straniere che rimorchiava a vernissage e feste d'inaugurazione. Guidava una Bmw rumorosa ed ingombrante. Amava il ristorante di carne alla brace che stava a Ponte Milvio. 

Ed era ancora amico di Isla. Nonostante tutto. O forse proprio grazie a quel tutto.

«Che ti riporta in città?», gli domandò staccandosi da lui e facendo un passo indietro per poterlo guardare negli occhi.

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