Ventidue

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La mattina seguente mi alzai controvoglia e con un gran mal di testa. Andai in bagno con ancora gli
occhi impastati dal sonno, sciacquai il viso con dell'acqua gelida e mi fermai davanti allo specchio con le braccia puntate ai lati del lavabo: i capelli scompigliati, gli occhi arrossati e segnati dalle occhiaie, le labbra screpolate e uno zigomo violaceo. Ero in pessime condizioni, così decisi di buttarmi sotto la doccia e lavare via ogni traccia della giornata passata.
Strofinandomi i capelli con lo shampoo all'aroma di menta mi accorsi di quanto avessi ancora i muscoli intorpiditi e doloranti, di quanto mi bruciasse la schiena allo scorrere del sapone sulle ferite, e a quanto tutta quella situazione mi avesse segnato fisicamente e psicologicamente.
Rimasi sotto il getto dell'acqua per un po', immobile a riflettere: Aveva un senso tutto questo? No. Ero esausto? Sì. Potevo mollare tutto e rinchiudermi in me stesso trascurando me e la mia famiglia? Avrei potuto, ma non avrei mai accettato una sconfitta. La famiglia era l'unica cosa che contava per me oltre la Formula 1, Eleonor era l'unica cosa che contava per me adesso, e Isabella, beh lei aveva sempre avuto un certo effetto su di me...
Sospirai, 1...2...3 volte prima di chiudere l'acqua e afferrare l'asciugamano per coprirmi.
Camminai con i piedi umidi sul parquet e scostai la tenda lasciando che i caldi raggi solari di agosto mi
baciassero il viso, pizzicandolo.
Afferrai dall'armadio una maglietta bianca di cotone e un pantaloncino nero, mi infilai le ciabatte richiudendomi la porta alle spalle e scesi le scale.
La casa era in ordine come al solito, e piuttosto silenziosa: la mamma aveva fatto sistemare il vetro del salotto il giorno stesso dell'incidente. Mi fermai a guardarlo per qualche istante, prima che una nodo mi si formasse in gola. Scacciai i brutti avvenimenti del giorno precedente e avanzai silenzioso verso la cucina, completamente vuota. Ero solo in casa.
Al posto del solito caffè preparai una spremuta d'arancia e sgranocchiai qualche biscotto, il giusto
per riempire lo stomaco e mandare giù un'aspirina.
Masticai lentamente e a fatica, non avevo per niente fame. Non ero mai stato un gran mangione, specialmente a colazione, perciò non mi stupii del mio carente appetito.
Avevo appena finito di riempire la lavastoviglie quando un gingillare di chiavi nella serratura attirò la mia attenzione. Mi sporsi verso la porta d'ingresso con ancora lo strofinaccio tra le mani, scoprendo la mamma con il telefono all'orecchio e mille buste fra le mani: un sorriso raggiante le illuminava il viso e la sua risata riecheggiò per tutta casa. Dubitai che si fosse accorta di me, così imboccai il corridoio e salii a due a due gli scalini per rinchiudermi di nuovo nella mia camera, ma prima di girare l'angolo e sparire fui richiamato dalla mamma:
«Arthur, tesoro, vieni qui» "altra ramanzina in arrivo" pensai, ma dovetti ricredermi perché la mamma ebbe la premura di accarezzarmi la guancia e assicurarsi che stessi bene dopo l'incidente: la sua mano era calda, ma io percepii quel tocco freddo, distante, come se fosse stato un gesto automatico e non voluto.
Rimasi in silenzio per una manciata di secondi, abbastanza per far sì che la mamma ritraesse la mano e smorzasse il silenzio che si era creato, esordendo:
«Abbiamo ospiti a cena» trattenni lo sbuffo che avrei tanto voluto cacciare fuori, non avevo alcuna voglia di stare seduto per ore attorno a un tavolo con persone che non avrebbero fatto altro che fare domande e impicciarsi nei nostri affari.
Così mi limitai a buttare gli occhi al cielo, visibilmente scocciato, e la mamma lo notò, ma non poté riprendermi perché fu troppo presa dall'arrivo dei miei fratelli e della bambina. Grasse risate animarono la casa, ancora: Ero l'unico a non avere nulla per cui ridere?

Il pomeriggio passò in fretta, tra giochi e cartoni animati, e la sera non tardò ad arrivare.
I segni di ciò che era accaduto erano abbastanza evidenti, perciò scelsi di sfoggiare uno dei miei migliori sorrisi per evitare scomode domande.
I nostri ospiti erano Maximilien e Geneviève D'Amboise, discendenti di una nobile famiglia francese che si era arricchita grazie alla produzione di vini. Mio padre, essendone un appassionato, non poteva non entrare in contatto con Étienne D'Amboise, il defunto padre di Maximilien, cui lasciò in eredità non solo l'azienda di famiglia ma anche diverse dimore sparse tra l'Italia, la Spagna, l'Inghilterra e, ovviamente, il Principato di Monaco.
Noi Leclerc, insieme con i D'Amboise, sin da quando ne ho memoria, abbiamo trascorso magnifiche vacanze tra le più suggestive mete del pianeta, fino a quando mio padre sfortunatamente si ammalò.
Nonostante questo, ho bei ricordi con i due coniugi.
Geneviève, una bellissima donna dai lunghi capelli rossicci e boccolosi, aveva sempre avuto un occhio di riguardo per me, il più piccolo dei Leclerc.
Quando Charles e Lorenzo si coalizzavano contro di me, il più "debole" tra i fratelli, Geneviève era colei che veniva in mio soccorso e si assicurava che quelle due pesti non mi stuzzicassero più.
Quando crebbi, le sue attenzioni vennero meno.
All'età di soli 19 anni il loro unico e amatissimo figlio Enea perse la vita in un tragico incidente stradale.
Il ragazzo morì tre giorni dopo in ospedale per le ferite riportate: tre giorni di puro strazio in cui avevano dovuto indurgli il coma farmacologico per non fargli sentire dolore.
Quando morì fu un duro colpo per tutti.
Ricordo ancora le urla strazianti di Geneviève il giorno del suo funerale.
Era come se il colorito vivo del suo volto fosse stato scolorito dalle lacrime e il perenne sorriso che animava chiunque le fosse accanto spazzato via dalla tristezza.
Vederla in quello stato ebbe un forte impatto su di me, che avevo appena undici anni.
Da allora non fu più la stessa, almeno non con gli altri. Ho sempre interpretato il suo atteggiamento in modo positivo, mi piaceva l'aria di intimità che si creava quando eravamo soli; sentivo che con lei potevo parlare di ogni cosa, chiarire ogni dubbio e porgere qualsiasi domanda, ma la verità del suo attaccamento era che in me vedeva il riflesso di suo figlio. Il suo amato Enea, il figlio che aveva sempre desiderato e che aveva faticato ad avere che ora non c'era più. Così come me, Enea era un ragazzo buono e gentile, a volte fin troppo e che proprio per questo veniva preso di mira e stuzzicato.
Inoltre, eravamo pericolosamente simili anche fisicamente. Stessi capelli castano chiaro e occhi grigi. Anche il tono della voce era simile.
Quando mi rivide dopo tempo, in seguito al funerale di Enea, non poté fare a meno di piangere e rinchiudersi nel bagno a singhiozzare.
Si scusò solo dopo che suo marito Maximilien, anche lui molto scosso, la convinse ad uscire dal suo nascondiglio.
Maximilien era sempre stato un uomo di poche parole, anche lui sempre sorridente ma meno estroverso della moglie.
Era un padre amorevole e un marito premuroso.
Quando il campanello della porta risuonò per tutta casa annunciando che i nostri ospiti erano arrivati stavo finendo di sistemarmi i capelli davanti allo
specchio del bagno.
Un brivido corse lungo la mia schiena. Mi affrettai a chiudere la lampo dei miei pantaloncini bianchi e a bere un sorso d'acqua prima di chiudermi la porta della camera alle spalle.
Percorsi le scale quasi correndo e, svoltando l'angolo, mi ritrovai in salotto dove Lorenzo stava sistemando i giochi della bambina, intenta a simulare il volo di un aeroplano girando intorno al divano.
Le scoccai una rapida occhiata assicurandomi che non perdesse l'equilibro e inciampasse tra le pieghe del tappeto, per poi dirigermi a passo lento verso l'ingresso.
Scorsi subito una chioma brizzolata muoversi verso la sala da pranzo e la cucina, come se stesse cercando qualcuno, così scherzai e attirai la sua attenzione
«Sono qui, Maximilien» un sorrisetto crebbe sul mio volto e le mie mani scivolarono nelle tasche dei jeans in attesa di ricevere un riscontro. L'uomo si voltò di scatto e mi venne incontro per abbracciarmi. Posò con fare paterno le mani sulle mie spalle e studiò il mio viso. Un mezzo sorriso come per dire "Mi dispiace" bastò a farmi capire che sapesse dell'accaduto, ma quelle parole non le pronunciò mai e gliene fui grato.
Quando guardai al di là della sua figura mi imbattei in Geneviève: i suoi occhi verde smeraldo si incastrarono nei miei e le mie gambe non poterono fare altro che muoversi automaticamente nella sua direzione.
Quando mi riconobbe il suo volto si illuminò.
Le corsi incontro come ero solito fare da bambino e lei spalancò le braccia per accogliermi.
Il suo tocco era gentile, soffice ed estremamente caldo; inalai con un gran respiro il suo profumo al gelsomino, lo adoravo.
Quell'abbraccio non durò molto, ma bastò a far sì che ogni preoccupazione che avevo svanisse: neanche gli abbracci della mamma mi facevano quell'effetto.
Quando ci staccammo riuscii ad intravedere nei suoi occhi un velo di lacrime che si sforzò di scacciare con una risatina isterica.
La sua mano si posò sulla mia guancia e i suoi morbidi polpastrelli presero ad accarezzarmi lo
zigomo ancora violaceo
«Arthur, bambino mio» aveva pronunciato a fior di labbra. Alla mamma non aveva mai dato fastidio il fatto che Geneviève mi reputasse come un figlio; sapeva del nostro legame.
«Come sei cresciuto» la sua voce si incrinò leggermente: per un momento parve che si stesse rivolgendo a Enea e non più a me.
Tirò su con il naso e schiaffeggiò l'aria come per scacciare via ciò che avevo pensato, ciò che tutti i presenti avevano pensato, provocando un tintinnio di bracciali
«Perdonami, sono così contenta di vederti» mi accarezzò il braccio distrattamente scoccando un'occhiata alla mamma che dall'altro capo della stanza aveva ancora il regalo dei coniugi tra le mani.
Il silenzio che si era creato era un tantino imbarazzante, ma fu presto spezzato dalla flebile e insicura voce di Eleonor. Quando mi chiamò "papà" e si nascose dietro le pieghe del vestito dorato della mamma sia io e che i D'Amboise ci voltammo di scatto. Con la coda dell'occhio riuscii a captare lo stupore sul viso di Maximilien
«Papà? Arthur...ma che?» mi aveva interpellato esterrefatto. La bambina era uguale a me, era difficile non fare due più due e in aggiunta lei mi aveva chiamato. Non sapevo cosa dire, così la mamma venne in mio soccorso smorzando l'aria di stupore che si era creata
«È stata una sorpresa anche per noi, a dire il vero. Arthur ha una ragazza e questa bellissima principessa è il frutto del loro amore» accarezzò i capelli castani della bambina che aveva gli occhi sbarrati verso i coniugi, a lei sconosciuti.
Mentre un sorriso complice si faceva spazio tra il mio e il viso di mamma, Geneviève si avvicinò piano a Eleonor e si accovacciò quanto bastasse ad arrivare alla sua altezza
«E come si chiama questa bellissima principessa?»aveva chiesto alla bambina con tono dolce mentre quella si metteva in bocca le gambe della sua barbie preferita. Era visibilmente stranita da quella donna, ma ciò non la rese incapace di rispondere in un sussurro
«Eleonor» El. Cresceva in fretta e se quando l'avevo conosciuta non muoveva ancora bene i passi ora scorrazzava per tutta casa e si esercitava a parlare con il suo riflesso nello specchio. Era una bambina davvero intelligente.
Le labbra di Geneviève si mossero istantaneamente in un sorriso e tutto ciò che fece fu lisciare le pieghe del vestitino blu di Eleonor, senza mai smettere di guardarla.
Quando Romina, la nostra cuoca di origini italiane, ci avvertì a gran voce che la cena era pronta ognuno tornò bruscamente alla realtà: Quanto tempo era passato dall'arrivo dei D'Amboise?
Non ebbi modo di mettere a tacere quel dubbio perché El mi saltò in braccio e insieme andammo in sala da pranzo per prendere posto a tavola

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