Tutto iniziò il giorno in cui la storia cambiò.
Il giorno in cui la realtà uccise i sogni.
Quel giorno si presentò alle luci dell'alba come un qualunque giorno di un caldo giugno, che monotono ammazza ogni voglia.
Mi svegliai e il caldo già dal primo mattino mi generava sintomi di spossatezza e noia, era un giorno che andava buttato a non fare niente.
Rimasi tutto il giorno in pigiama, non mi vestii neanche perché anche quello sarebbe stato uno sforzo eccessivo e insensato che non avevo intenzione di compiere.
Vegetavo sul divano a riguardare programmi già visti con l'unico pensiero volto all'attesa che il ventilatore girasse verso di me per poter avere un minimo sollievo scandito dall'insistente, costante e lenta voce dell'orologio che non voleva lasciar andare quel giorno torrido.
Le gocce di sudore bagnavano il volto e non valeva a nulla lo sforzo di fermarle nella corsa verso la maglietta ormai zuppa.
Il telefono con il suo silenzio aiutava a dilatare il tempo.
Dormire sembrava l'unico modo per fuggire da quella mesta condizione, così tentai, tentai, tentai...
Ci riuscii.
Ero in mezzo ad un campo di girasoli alti più di me, tutti uguali che si giravano all'unisono ordinati e perfettamente sincronizzati verso un sole che girava in tondo veloce e perpetuo.
Io camminavo in mezzo a loro impaurito e disorientato cercando un'uscita e gridavo nella speranza che qualcuno mi sentisse anche se non sapevo chi.
Ovunque io mi girassi, ovunque io guardassi, l'orizzonte non cambiava mai.
Così mi sedetti a terra rassegnato e iniziai anche io a seguire il perpetuo circolo del sole, ma ad un certo punto, il cielo si spense e il sole scomparve.
I girasoli intorno a me, mantenendo sempre la loro simmetria perfetta chinarono la testa.
Quello che era un campo fitto, ora aveva una strada battuta innanzi, sulla quale non crescevano i fiori e infondo si stagliava regale la luna.
Dopodiché venni svegliato di soprassalto dal telefono che squillava riportandomi alla realtà.
Ci misi un paio di secondi a realizzare la situazione e vidi con piacere e soddisfazione che il mio piano aveva funzionato e il sole stava tramontando.
Guardai il telefono e vidi il nome di Maia, così risposi immediatamente e senza pensarci.
"Ciao Nick, come stai?"
Aveva un tono esitante ma anche impaziente, come avesse voglia di raccontare qualcosa, ma doveva prima svolgere quelle che sono le normali prassi sociali con chi non senti da tempo.
"Come stai, tutto ok, cosa fai ora, da quanto è che non ci sentiamo."
Tutta quella inutile retorica alla quale ci si presta.
"Ehi Maia, io tutto bene, tu?"
"Si! Anche qui tutto a posto"
"Perché questa chiamata inaspettata ma piacevolissima?"
"Niente era giusto per, sai non ci sentiamo da un po'..."
Non avevo un grande rapporto amicale con Maia, eppure, mi sono sentito stranamente vicino a lei, ho avuto spesso quella sensazione di voler raccontare qualcosa a qualcuno, però quel qualcosa magari riguarda te stesso e qualcosa a cui tieni, così non puoi raccontarlo a chi ti sta accanto, magari perché non capirebbe o semplicemente perché non vuoi che lo sappiano le persone che ti circondano. Ciononostante, hai comunque il bisogno di dirlo a qualcuno, allora ti rivolgi a chi è fuori dalla tua vita perché non può dirlo a nessuno, come un diario segreto che ti risponde.
Avevo come la sensazione che Maia volesse soddisfare questo esatto bisogno con me, così assolsi al mio ruolo e la assecondai fino a che non avesse deciso di dirmi ciò che la affliggeva.
"Maia, adesso raccontami qualcosa di interessante, raccontami come va in amore."
"Beh Nick in amore ho una situazione che non sa nessuno e che non posso dirti."
Ecco cosa voleva dirmi, fingeva di non volerne parlare ma era l'unico vero motivo della sua chiamata.
Così insistetti un po' fino a quando si aprì...
"Sto con un ragazzo adesso, ci sto insieme da cinque mesi ed è fantastico, lui è stupendo e mi tratta come una principessa, solo che ultimamente si sta comportando in maniera un po' strana, oggi per esempio dovevamo vederci ma io gli ho detto che dovevo lavorare al ristorante e si è arrabbiato."
Mi sembrava una situazione abbastanza normale, non così eclatante da non poterla raccontare a nessuno.
"E tu cosa hai fatto?", le chiesi curioso.
"Ho detto che ero malata al lavoro e sono uscita con lui, avevo paura che si arrabbiasse."
Raggelai.
Mi sentivo onorato che avesse deciso di parlare con me, tra tutti proprio con me, non potevo tradire la sua fiducia e non potevo spaventarla con un approccio troppo brusco, così le dissi ciò che si voleva sentir dire e la tranquillizzai: le dissi che era sì un po' strano come comportamento ma che non aveva niente di anomalo, le dissi che aveva sbagliato a non andare al lavoro e che se lui ci avesse tenuto avrebbe capito.
Tirò un sospiro di sollievo, mi ringraziò e ci salutammo affettuosamente.
Ancora oggi con la consapevolezza che ho acquisito dopo anni, ancora oggi che vedo la storia da esterno per come è accaduta, non riesco a dire se ciò che le dissi era la scelta giusta o no; perché le mie parole fecero si che lei iniziò a fidarsi di me, ma favorirono a proseguire quella relazione, forse avrei dovuto dirglielo, forse avrei dovuto fermarla, forse avrei dovuto intervenire sul nascere, ma forse... forse non avrei potuto dire nulla per fermare ciò che sarebbe accaduto e che iniziò quel giorno con quella chiamata.
Il giorno seguente ebbi tempo per riflettere sulle parole di Maia e rimpiangere ciò che le dissi. Il giorno dopo ancora il destino mi diede prova che avevo comunque fatto breccia perché mi richiamò.
Mi raccontò un paio di conversazioni e da lì iniziò a chiamarmi spesso per raccontarmi ciò che accadeva e ogni giorno si apriva sempre di più, ogni giorno mi raccontava sempre di più, arrivò a mostrarmi i messaggi che si scambiavano e ogni giorno avevo sempre più paura di ciò che dicevo, ogni giorno si dimostrava sempre più tossica quella relazione e alla fine si dipinse il quadro completo.
Quel ragazzo, il cui solo pensiero mi rivolta lo stomaco, quel ragazzo era un cafone analfabeta ma era anche un gran puttaniere, aveva avuto una marea di ragazze prima di lei, era il classico ragazzo che misura il suo valore da quanto scopa e da quante più ragazze diverse riesce a "rimorchiare" e tanto più merita onore e riverenza, così ha avuto tante ragazze ma poche relazioni effettive, perché le donne sono solo questo per le persone come lui, sono trofei da conquistare per poi buttarle via una volta raggiunto il suo obbiettivo.

Purtroppo, il suo licenzioso stile di vita gli ha donato un'arma potente: l'esperienza.
Ci sapeva fare, dannatamente, era più grande di lei e con molta più esperienza sociale di lei e sapeva esattamente come fare per manipolarla.
Era in grado di far venire i sensi di colpa a Maia se non faceva ciò che voleva lui e, se anche non fosse riuscito a manipolarla in quel modo, le incuteva timore.
Era arrivato al punto in cui lei si sentiva così tanto inadeguata e insicura che voleva compiacerlo a tutti i costi per dimostrare di meritare di stare con lui.
Però in qualche modo, in qualche perverso e amorale modo, sono grato a quel mostro perché se da una parte lei tentava di dare un'immagine di sé vincente quanto irreale, dall'altra con me si svelava in toto, per liberarsi delle aspettative.
Senza che me ne accorgessi mi ritrovai a parlare tutti i giorni con lei, avevo uno sfogo, io ero il suo diario e lei era il mio, avevo finalmente trovato qualcuno di affine, io capivo lei e lei capiva me, così parlavamo di idee, opinioni, della vita e soprattutto dell'amore.
Parlammo tanto dell'amore e per la prima volta trovai qualcuno che ne aveva una considerazione tanto nobile e alta quanto la mia, così sfruttai più volte l'argomento per tentare di farle capire quanto fosse sbagliato il tipo di rapporto che aveva, le dicevo che la vita intera era una questione di determinazione, che tutto si piega alla determinazione, che se credeva a qualcosa abbastanza intensamente poteva fare tutto, che anche se aveva paura a lasciare quel mostro per timore di rimanere sola sbagliava, perché avrebbe sicuramente trovato la persona giusta.
Provai tutte le strade possibili ma nulla bastò a fermare quel treno.
Arrivò il momento per me di tornare ad Arcadia ed ero più felice del solito perché potevo tenere le mie conversazioni quotidiane con la mia amica di persona.
Ciò le permise di aprirsi ancora di più e mi resi conto che giorno dopo giorno lui si comportava sempre peggio e lei acquisiva sempre più consapevolezza della cosa, ma non lo lasciava e continuava ad assecondarlo.
Fino a quella sera in cui non ci vedemmo perché doveva uscire con lui.
Erano le quattro di notte e mi chiamò terrorizzata.
Non riusciva neanche a parlare e io mi sentivo più in panico di lei perché non capivo, così uscii di casa e andai da lei.
Arrivai a casa sua e mi fece entrare in silenzio, la sua famiglia dormiva così ci mettemmo in cucina, chiudemmo la porta e tentai di fare ciò che potevo.
Le chiesi cosa fosse successo ma lei non rispose.
Insistetti ma niente.
Maia guardava per terra, guardava il tavolo, si guardava le mani, guardava tutto pur di evitare il mio sguardo.
Teneva la mano destra fissa sulla sua spalla e continuava a evitare me e il discorso.
Le dissi che non potevo aiutarla se non mi parlava, che doveva dirmi cosa era successo se voleva che facessi qualcosa e, mentre parlavo agitato e conciso, quasi frenetico, mi fermai.
Ero l'unico di cui si fidava abbastanza da chiamare nel caso in cui le fosse successo qualcosa, ma non ero abbastanza per far sì che lei si potesse liberare di quel peso.
Mi resi conto di una triste verità: eravamo smarriti, eravamo soli, non sapevamo cosa fare né dove andare, sembrava che le cose fossero destinate ad andare sempre male indipendentemente da cosa facessimo e quanti sforzi impiegassimo; avevo provato con tutte le forze a salvarla da quella relazione ma non ottenni nulla e ciò che è peggio non capivo perché ma dovevo aver sbagliato qualcosa perché se avessi fatto tutto bene ce l'avrei fatta.
Eravamo smarriti, cuccioli abbandonati dalla madre costretti a dover combattere in un mondo ostile perché avevamo la semplice colpa di voler sopravvivere, eravamo nel bosco buio e freddo senza una guida.
Non eravamo pronti, non eravamo preparati, non eravamo adeguati.
Poi lei volle rompere il mio fiume di pensieri con la verità che cercavo di nascondere a me stesso da sempre.
"Puoi crederci quanto vuoi, ma la determinazione non basta a cambiare le cose, devi solo arrenderti a ciò che accade senza pensare di cambiare le cose, perché le cose non cambieranno mai", si fermò un secondo, quasi a raccogliere le forze per dire ad alta voce quell'ultima frase e poi la sputò fuori, "la vita non è giusta, non esiste una bilancia, puoi essere buono quanto vuoi ma ciò non ti farà capitare cose buone, te lo farà solo prendere nel culo dagli stronzi che se ne fottono di tutto".
Tornò il silenzio.
Maia avvilita si strinse le braccia attorno in cerca di conforto, di rifugio, si morse il labbro tremante per fermarlo, posò il viso su una spalla per non rischiare di inciampare nel mio sguardo, resistette finché poté. Io per rispetto uscii di casa per lasciarla sola e mi piace pensare che quella rassegnazione, quello sconforto e quel dolore provati da una persona così pura abbiano scosso qualcosa; neanche la luna da sempre così indifferente alle disgrazie umane, neanche lei avrebbe mai potuto restare a guardare indifferente. E infatti, non lo fece.
C'era una storia che avevo letto un giorno, una favola d'amore che riportava una frase che ho sempre custodito nel cuore, nella parte più pura del cuore, quella che segretamente crede ancora a babbo natale nonostante tutti dicano che non esista, quella piccola parte che si ostina a credere alla magia anche se sa che non ve n'è più spazio oggi.
"Le lacrime innocenti versate sulla terra convocano i re del cielo".
È figlio di quel redivivo bambino il pensiero che forse furono proprio quelle lacrime a invocare la speranza.

Perché Dio non risponde alle preghiere ma lei si...

L'assolutaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora