26. Cloud City

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Dopo un periodo di totale incoscienza, Leo si svegliò in un luogo di calma e ombre. Era come se ogni singola cellula del corpo avesse deciso di staccarsi dalla vicina, scomponendosi nell'etere. Miliardi di minuscoli frammenti avevano coperto ogni angolo di quello spazio infinito. Non era da nessuna parte, eppure si sentiva ovunque. Il tutto accompagnato dalla sensazione di non essere mai esistito.

Dopo un tempo che non riuscì a misurare, Leo prese pigramente coscienza del silenzio che lo circondava e spalancò gli occhi con lo stesso orrore che si prova quando ci si sveglia da un incubo. L'odore delle cose gli entrava nel naso. Violento, si mischiava nel calderone del suo cervello confuso, disinfettandone i pensieri. Leo si guardò attorno.

Non sapeva per quanto a lungo avesse perso coscienza, né dove fosse. Aveva sognato qualcosa, ma più cercava di ricordare, più dimenticava. Tutto era in bilico. Come il polline di febbraio, che solitario e inatteso rimane attaccato ai rami ancora spogli degli alberi. Quello che, disperato, cerca di prendere fiato, prima che il vento se lo riprenda.

Cos'è accaduto esattamente?

Leo cercò di ricordare, ma la folata passò troppo velocemente, trascinando con sé il polline della sua memoria. Sentiva le tempie esplodere, mentre cercava di afferrare il ricordo che il vento del sonno si era ripreso, portandolo lontano.

Una voce parlò. Apparteneva a una figura, alta e scheletrica, che avanzava in mezzo a quella stanza, nascondendo il volto dietro una maschera ghignate. Una mano spuntò da uno dei lembi della veste color sangue.

«Sei sveglio?»

Leo tentò di replicare, ma le parole non riuscivano a prendere una forma.

«Non avere paura» e delle mani lo aiutarono ad uscire da quella bara in cui si trovava.

Le molecole, che avevano vagato libere nell'oscurità, si erano trovate improvvisamente compresse. Condensate con violenza l'una sull'altra per definire l'argilla dei suoi organi. Dopo aver conosciuto quella leggerezza, si sentì denso. Come sabbia che dopo l'onda torna a depositarsi sul fondo del mare, più pesante di prima. Il calore delle sue ossa sofferenti cominciò a ispessirsi. Passava attraverso le membrane e si arrampicava lungo i muscoli, fino alla pelle, che sentiva tirare come cuoio. Per un attimo ebbe la sensazione che, se si fosse mosso, la carne si sarebbe lacerata, spogliandolo come un cadavere.

Allora provò a ignorare il dolore, prendendo coscienza di tutti i muscoli che gli fasciavano il corpo. Iniziò a contarli uno ad uno.

Quando arrivò al diaframma, scoprì di poterlo tenere sotto controllo e lo rilassò. Una zaffata di sudore acido gli riempì i polmoni e li fece bruciare. Tossì.

Leo deglutì e lasciò che il fiele della sua saliva scendesse in gola. La lingua si muoveva sul suo palato di cartone nel vano tentativo di umettarlo. Il ragazzo rilassò la fronte e sentì i muscoli del viso ammorbidirsi.

Dove sono?

«Dove sono?» domandò Leo.

L'uomo mascherato fece un passo verso di lui «Ti trovi a Cloud City» disse con voce flebile poi si voltò e se ne andò, uscendo da quella stanza che calò nel silenzio, ma non nella solitudine.

Leo si trovò in una camera piena di macchinari. Se ne stavano l'uno ammassato sull'altro, qualcuno emetteva degli strani suoni, qualcun altro tremolava, qualcuno se ne stava, inerte, al suo posto. Erano di ottone, legno, quarzo, vetro, ambra e di altri materiali che non conosceva. In mezzo a tutto quel disordine, due figure sorridevano al centro della stanza. A qualche metro da lui, Newt si lasciò sfuggire un "ooh!" di meraviglia.

Poco distante, Febo sorrise e chinò leggermente il capo «Vostra Maestà» disse rivolto all'uomo sulla soglia, che osservava ciò che stava accadendo nella stanza.

LEO e la leggenda del Regno di LuceDove le storie prendono vita. Scoprilo ora