34 - Alex nel pozzo

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Il bambino non ha le gambe. Piange tra le braccia di sua madre, di fronte a me e non ho il coraggio di prenderlo in braccio. Dafne mi sorride, io sento arrivare un attacco di panico, ma siccome sono padre allungo le braccia. Lo stringo. Una sensazione nuova, ma antica. Un gesto così naturale che mi sembra di averlo sempre fatto. 

Aria piange lacrime di gioia in fondo alla stanza. Fanno male lo stesso. 

La stanza è buia e il bambino non si muove più. Sono chino su di lui, come se a piegarmi abbastanza potessi rendergli il respiro. 

L'acqua che mi entra nel naso e nella gola sa di ferro. Mi sollevo senza fiato e il buio è spesso. La realtà non mi toglie il peso di un lutto mai avvenuto e la paura del futuro. 

Ho le braccia piegate, come se ancora stringessi mio figlio e per qualche minuto devo concentrarmi solo sul respiro per capire dove mi trovo. So solo che ho paura e freddo, come quando ero bambino e sono finito per strada. Evan vuole ricordarmi che sono suo, che dipenderò sempre da lui, in ogni cosa. Ora, come allora, non ho nulla e sono alla sua mercé. Vorrebbe che fossi fragile, insicuro, ma sono solo arrabbiato e la paura è un'arma affilata della vendetta. L'ho imparato in carcere, prima non ne ero consapevole, ma l'essere umano per conservare la sua vita è disposto a tutto, anche ad andare contro la sua natura. Anche a uccidere. 

Il buio è fatto di mattoni viscidi e bagnati di un'umidità che attacca la pelle e le ossa. Tremo con la camicia incollata al petto e le gambe insensibili. Le muovo nella speranza di riprendere forza, ma nel buio esiste solo il nulla nero che non mi permette di vedere niente. Questa è la seconda notte più buia della mia vita. 

La prima è stata dieci anni fa, quando il mondo mi ha rigettato come un organo incompatibile, e sono finito all'inferno. 

La cella era buia, puzzava di sporco, urina e prodotti scadenti per la pulizia. Come compagno di cella avevo un orso che russava a petto nudo. Il poliziotto che aveva chiuso la cella augurandomi buona fortuna si era portato via la luce, sprofondandomi in un buio sconosciuto. Avevo cercato di arrampicarmi alla meglio sul letto superiore senza svegliare l'orso dal suo letargo. Non ho mai saputo il suo nome, non ho fatto in tempo a domandarlo.

Quella notte ho sperimentato sulla mia pelle che se svegli un orso dal suo letargo lo fai arrabbiare. Lo rendi feroce. Nei giorni seguenti ho imparato qualcosa su di me. La paura sveglia la mia rabbia e nessuno è più feroce di un uomo che teme per la sua vita. 

Struscio la schiena contro la pietra e cerco di alzarmi, ma non ce la faccio. Quando ha visto la mia espressione all'idea di essere gettato nel pozzo, mi ha accompagnato lui e ha fatto allontanare Stan con una scusa. 

«Cosa ti spaventa? Sono pochi metri...»

«Da quando mi hanno arrestato ho un problema alla schiena, avrei dovuto sistemarlo tempo fa. Resta il fatto che se prendo anche solo un altro colpo nel punto sbagliato, rischio di rimanere in carrozzina per il resto della vita».

David sbianca, a quanto pare la falla nel suo piano sono proprio io. «Merda. Stan sta per tornare. Posso tenerti finché riesco per diminuire l'altezza della caduta, ma non mi permetteranno di farti scendere in altra maniera».

Ho scavalcato la barriera di pietra che faceva da sponda a un buco scuro, per quel che riuscivo a vedere poteva anche scendere fino al centro della terra. «Morirò qui dentro».

«Devi solo resistere il tempo che lui capisca che non sei Zero».

«Impossibile».

David mi aveva sorriso e mi era sembrato come sempre troppo giovane. «Deve solo vederlo in azione mentre tu muori qui dentro».

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