4 - Grattare la superficie

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«Sei qui, Alex?» Le mani di mio padre, nei miei ricordi di bambino, sono enormi

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«Sei qui, Alex?» Le mani di mio padre, nei miei ricordi di bambino, sono enormi. Ne appoggia una tra i miei capelli scuri e li scompiglia. «Ti ho cercato dappertutto».

«No. Qui non sei venuto».

Gli scappa una risata priva di allegria e penso che anche per lui la situazione sia complicata. «Sul tetto? Non sapevo fossi capace di salire qui».

«L'ho scoperto oggi. Cercavo un modo per scappare, come ha fatto mamma...»

«Lei non... Alex, tua madre ha fatto una scelta, ma non dipende da te, la colpa è mia».

Avevano litigato tanto. Lei non sopportava il lavoro di papà. Quello che ci dava da mangiare, rispondeva sempre lui. Allora preferisco fare digiuno, gridava lei sbattendo la porta. Quel giorno l'aveva sbattuta più forte del solito, per l'ultima volta, con una valigia in mano. «Te ne andrai anche tu?»

«No». Si era seduto sul tetto della baracca insieme a me. «Io resto. Non sarai mai solo».

Ho sempre amato le altezze, fin da piccolo. Mi staccavano dal resto del mondo e da tutto quello che non desideravo vedere. La prima volta che mi sono arrampicato avevo sei anni e mia madre era fuggita chissà dove per dimenticarsi di noi. C'è riuscita, a quanto pare, perché non l'ho più vista. Credo che chiunque definirebbe la mia famiglia d'origine disfunzionale. Io ero solo un bambino, ma la vita con mio padre funzionava, di sicuro meglio di tutto quello che è venuto dopo. Ci bastavamo e ci volevamo bene.

Dopo dieci anni a dividere la cella con un compagno col cervello spappolato dal Nod, vivo in un garage umido alla periferia della città con un unico amico a salvarmi di continuo dal baratro e il capo di ogni traffico illecito di questa maledetta città che mi rivendica come sua proprietà e pretende che ritorni con la sua banda di disperati. Avere Evan dalla mia parte mi aiuterebbe a vendicarmi della morte di mio padre, ma è un uomo pericoloso, imprevedibile, e non mi legherà di nuovo a sé. Non dopo avermi tradito e lasciato solo.

Della mia vita passata mi è rimasta solo Ellie, la moto rubata con la targa contraffatta ad arte che avevo abbandonato in un vecchio garage. Non lo ammetterò mai, ma le ho dato un nome perché mi sentivo solo, e lei mi faceva credere che un giorno sarei stato di nuovo un essere umano, non solo un topo di questa fogna. Guido piano verso casa; la moto asseconda i miei pensieri e si piega docile mentre penso alla ragazza che mi ha presentato Joe, quella con un nome strano, Aria, capace come nessuno di attirare ogni sorta di guai. Mi è bastato quello per decidere di starle il più lontano possibile.

Quando l'ho vista entrare, il locale era poco affollato e lei mi ha colpito. Il suo aspetto attirerebbe l'attenzione di una buona parte della popolazione, maschile e femminile: i ricci biondi costretti in una coda alta, gli occhi verdi e quel corpo asciutto, disegnato da un tubino nero e dagli stivali alti. Eppure in quel momento mi sono sentito così male che, nonostante i miei occhi siano rimasti inchiodati su di lei, la mente era altrove, impegnata a sopportare un dolore profondo alla bocca dello stomaco. In qualche secondo è passato, ma ha lasciato una traccia fastidiosa in un punto imprecisato dell'addome e la scomoda consapevolezza che non sia la prima volta che la incontro. Una così non si dimentica certo e gli ultimi dieci anni me li sono fatti dentro, in mezzo a soli uomini della peggior specie. Sto diventando pazzo.

Percorro la rampa in discesa che mi porta a quella che ora è casa mia. Infilo la chiave e la maniglia gira. Il portellone si solleva con un sinistro cigolio e infilo la moto sul lato destro del locale. È piccolo e puzza di umido, ma Joe mi ha lasciato un materasso e la libertà di modificarlo come voglio, infatti sul fondo ho installato un fornellino elettrico per farmi da mangiare e una stufa per scaldare l'ambiente. Una piccola porta laterale dà accesso a un bagno minuscolo in cui è stata installata una doccia di fortuna. Quando mi lavo, l'acqua allaga tutto il bagno e raggiunge il pavimento del garage, prima di scendere a fatica dalla grata centrale. L'ho sturata un paio di volte, ma continua a bloccarsi. Non è il massimo, ma è una casa in cui posso vivere.

Scarico dalla moto due latte di pittura lavabile, una bianca grande e una più piccola, di una tinta fluorescente, pagate con l'anticipo del mio stipendio. Avrò modo di pentirmene quando non arriverò a fine mese, ma per adesso ho bisogno che questo posto mi somigli e mi dia calore perché ho freddo, una nebbia gelata che mi riempie e mi circonda, che puzza di disperazione e mi spaventa. Un'altra cosa che non ammetterò mai.

Mi sfilo la felpa e la maglietta per non macchiarle e accendo la torcia elettrica. Preparo il materiale per dipingere. È l'alba quando crollo sfinito sul materasso ricoperto da un lenzuolo recuperato al locale. Le quattro pareti odorano di pittura fresca come le mie mani e i miei pantaloni. Devo assolutamente farmi una doccia e smacchiarli prima che siano da buttare e mi torna in mente l'immagine di quella ragazza che si fa sbattere dal primo arrivato, nel vicolo sporco accanto al Black che ho visto quando sono andato a vuotare i bidoni nel contenitore grande. Mi è sembrato assurdo che una del genere si svendesse così. Sono rientrato nel locale di pessimo umore, ma perché prendersela tanto per una sconosciuta...

Sotto di noi scoppiano bombe carta, le gettano anche dalle finestre per creare più confusione. Sono settimane che vanno avanti. La gente cerca di proteggersi e nascondere chi ama: uomini, donne, padri e madri. Siamo tutti colpevoli di aver voluto sopravvivere in un ambiente inospitale. Siamo tutti parassiti resistenti.

«Sapevo che ti avrei trovato qui».

«È il posto più alto che ho trovato». Il tetto del Black Bridge è il posto più sicuro, almeno lo è stato fino a quel momento.

Mio padre sorride, poi guarda avanti, mi stringe con un braccio e solleva l'altro in alto. Lascia cadere a terra il suo coltello.

Spalanco gli occhi nel buio senza capire dove mi trovo e d'istinto corro con le dita a cercare l'anello che portavo al pollice. L'ho perso tanto tempo fa, ormai, ma quando mi trovo in difficoltà lo cerco ancora. Quando mi adatto alla penombra inizio a distinguere le scritte sulle pareti e il cuore di calma. Sono libero. Il passato non si cambia, ma il futuro lo decido io. Stringo forte il pugno insieme alle chele dello scorpione che porto sulla mano.

🔗🦂 Spazio Fede 🔗🦂

Buonasera a tutti,

considerazioni? Questo capitolo apre la visuale e ci fa capire meglio il punto di vista di Alex, ho cercato di mostrare la fatica nell'adattarsi all'ambiente esterno dopo anni in carcere, anche se non so se ci sono riuscita del tutto. Alex ribolle, nasconde un odio e un desiderio di vendetta che non mi lascia ancora vedere del tutto. Sogna spesso la notte in cui il suo modo è crollato, a volte il sogno è completo, a volte, come questo, lui si sveglia prima per l'angoscia.

Una cosa è chiara, non vuole avere a che fare con Aria, che gli provoca un naturale fastidio. E noi siamo contenti perché entrambi portano guai, ognuno a modo suo, e insieme non possono che peggiorare le cose. Ci fidiamo di Joe che è l'unico che è rimasto accanto ad Alex e gli ha permesso di ricominciare...

Le storie sono fatte di specchi, com'è facile caderci dentro...

Alla prossima

Fede

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