25- IL RUBACUORI

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Vanni fu svegliato alle tre di notte da una telefonata. Era il vicino del piano di sotto. Vanni – anche se sua moglie non era stata molto d'accordo – gli aveva lasciato il suo numero dicendogli che poteva chiamarlo per qualsiasi cosa, per ogni necessità, in ogni momento del giorno e della notte. E l'uomo era anziano, malato, e solo.

Quando scese di sotto, con addosso una vestaglia e un paio di pantofole, trovò la porta dell'appartamento del vicino accostata. L'uomo sedeva su una poltrona, in salotto, vicino al camino spento. Quando lo vide entrare gli fece un debole cenno di saluto. A Vanni il suo viso non piacque per niente. Spento, tirato, flaccido, incavato. Alla luce delle lampadine la sua pelle pareva grigia.

– Vi sentite male? Devo chiamare qualcuno? – chiese. Il vicino scosse la testa.

– Siediti – disse. Gli indicò il divano. – Ho bisogno di parlarti di una cosa.

Vanni non era molto convinto che parlare fosse la cosa migliore da fare in quel momento. Avrebbe preferito chiamare il 118. Ma il vicino gli disse che per l'ambulanza c'era ancora tempo. Sempre che avesse avuto ancora voglia di chiamarla, dopo.

– Dopo cosa? – chiese.

– Dopo che ti avrò raccontato tutto.

Vanni si mise a sedere.

– Ricordi quel tizio che uccideva le donne, qui, intorno agli anni '90? Il Rubacuori? – chiese il vicino.

– Certo che me lo ricordo – rispose Vanni. Il tizio rapiva sempre donne sole, senza famiglia e senza marito. Le convinceva di essere interessato a loro, organizzava un appuntamento, e poi le eliminava. Venivano ritrovate qualche giorno dopo, sempre con la cassa toracica aperta e il contenuto estratto. Era per questi due motivi che la stampa aveva iniziato a chiamarlo "il Rubacuori". Aveva colpito per cinque o sei anni; poi di lui non si era saputo più niente. Non era stato mai preso, ma le donne avevano smesso di sparire. Per qualcuno era morto, per altri se n'era andato. La verità non si era mai saputa.

– Bene – disse il vicino. – Perché il Rubacuori ero io.

Vanni rimase qualche istante in silenzio, cercando di interpretare quello che aveva appena sentito. – Scherzi – disse poi.

Il vicino scosse la testa. – Per niente. Ho ucciso ventisei donne, le ho aperte e ho rubato i loro cuori. Li mettevo in barattoli di vetro, sotto formalina, e ogni tanto me li andavo a guardare. Perché era il cuore la parte che mi piaceva di più. I giornali avevano ragione, tutto sommato.

Vanni deglutì a fatica. E adesso, si chiese, che faccio. L'unica cosa che lo tranquillizzava era il fatto che il vicino gli pareva troppo vecchio e debole e malato per saltargli addosso. Ma poteva avere una pistola. Però per farne cosa? Difendersi? Costringerlo a stare ad ascoltare? In fondo non ce n'era bisogno: a Vanni quella pareva un'estrema confessione. Ci sarebbe voluto un prete al posto suo. Ma immaginò che non ci fosse il tempo di farlo venire.

– Non sei curioso neanche un po'? Non vuoi sapere niente? – gli chiese il vicino.

Vanni fece segno di no con la testa.

Il vicino rise. – Beh, a qualcuno dovrò pur dirlo, no?

– Ma... ma io non voglio saperne proprio niente di questa storia – disse Vanni. Ed era vero. Aveva sempre considerato il suo vicino una brava persona, un po' solitaria e indifferente ma non cattiva. Qualcuno che forse era stato trattato male dalla vita e che si era ritrovato senza nulla, senza nessuno. Era stato felice di offrire il suo aiuto. Era convinto di aver fatto la cosa giusta. Ecco perché ora non voleva sapere.

– Comunque stai tranquillo, non sono qui per condividere i particolari più tremendi. Quelli li lasciamo ai giornalisti. E non c'è nessun cuore nascosto sotto i cuscini del divano.

QUARANTASEIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora