33. Adrenaline

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Mentre l'ago trapassava lo strato spesso e umido della muta incollato alla sua pelle, Johnny dovette scuotere la testa un paio di volte per scrollarsi dagli occhi il velo ottuso di dolore che gli annebbiava la vista e impastava il respiro.

La reazione fu immediata.

Respirò via il bruciore della puntura, la sensazione sgradevole del liquido gelido spandersi nel sottocute e, di colpo, il cuore raddoppiò il numero e la forza dei battiti. Gli serrò lo sterno, fino alla gola.

Conosceva la sensazione, l'euforia sottile e scellerata che esplodeva nel cervello, galoppava nel petto per lunghissimi istanti, l'invulnerabilità apparente, sorda a qualsiasi dolore.

Ne era affascinato e terrorizzato al contempo.

- Cazzo! – latrò Soap in un fischio nel silenzio roboante del cargo, la voce roca appena più forte del tamburo che gli risuonava nelle orecchie fin nella scatola cranica.

Si sedette pesantemente su uno dei rozzi sedili, la nuca rasata che impattava contro il metallo freddo, il respiro pesante che si trasformava ritmico in sbuffi di condensa biancastra.

La guardava risalire le correnti fredde che vorticavano nella carlinga, come intontito, le pupille affilate dal farmaco, ma il piede tamburellava sul fondo nudo dell'elicottero senza sosta.

Il profilo della diga, così come le luci che pullulavano sopra Verdansk, sparì inghiottito dalle tenebre dense della notte ormai sfilacciata ai margini che già schiarivano in lontananza, oltre il profilo montano.

Quando l'elicottero atterrò sulla pista in un tonfo sordo di pistoni, la vibrazione risalì indiscreta il torace di Johnny rimbombando fra le coste ammaccate. Stava sudando.

Il sergente serrò gli occhi un istante contro la luce rosata e polverosa che filtrava obliqua dal finestrino, come a dissipare almeno un poco quel velo di atroce e familiare lucidità che gli si era appiccicato alle palpebre.

Il tenente aprì il portellone in uno schiocco secco e l'aria gelida dell'ultimo scampolo notturno, umida e terrena, gli ferì piacevolmente i polmoni in uno sbuffo che spazzò di colpo l'odore di grasso e polvere da sparo dalla cabina.

Il tonfo degli stivali che colpivano il cemento della pista risuonò strano in quella stasi densa, quasi nebbiosa, gli restò aggrappato ai sensi affilati dall'adrenalina insieme ai passi svelti di entrambi che, in tacito accordo, dileguavano verso gli alloggi.

Un'alba pallida e slavata biancheggiava distante, oltre le cime degli Urali, quando Soap aprì di scatto la doppia porta in alluminio della tozza palazzina in cemento. La flebile luce polverosa rigurgitò all'interno, accarezzò lieve i contorni dello scarno spazio comune e aderì, fin troppo dolce, alla figura in penombra a poca distanza da loro.

Non disse una parola, ma trattenne il respiro, i lunghi capelli sciolti sulle spalle, disordinati come nelle notti infinite che gli aveva trascorso accanto. Accogliente, così accogliente.

MacTavish la guardò, a lungo, più a lungo di quanto non avrebbe dovuto, come intontito, nonostante il ruggito del cuore che amplificava i suoi istinti.

Per una volta non si chiese nulla, si sentiva invincibile, certo di quello che avrebbe dovuto dire, del calore che avrebbe voluto darle.

Soap si fece avanti in falcate lente, le orecchie in fiamme e un rivolo di sudore che gli pizzicava la tempia rasata. Fu per puro istinto che liberò le spalle dalle riserve d'ossigeno, sfilò i guanti tattici e la muta nera dal torace in un gesto secco, nervoso. Digrignò i denti per il dolore pungente della peluria strappata di netto, dei lividi freschi che pulsavano sulle ossa ammaccate.

Wait for me || John "Soap" MacTavish (Call Of Duty) x OCDove le storie prendono vita. Scoprilo ora