32. Love of my life

153 15 2
                                    

Kastovia, 15 novembre 2023

Yael riconobbe il battito pesante delle pale dell'enorme elicottero da trasporto, persino dall'interno della piccola corsia smaltata in linoleum.

Vibrò sugli alti finestroni dell'hangar in un rombo ottuso e intermittente, scuotendo l'aria pregna del sentore pungente di alcol e disinfettante.

La dottoressa controllo un'ultima volta che la ferita del sergente Day fosse in ordine, prima di scollegare la flebo di salina dall'ago cannula in un gesto delicato, ma fermo.

- Pronto a tornare a casa, sergente? – sorrise distratta, mentre col palmo della mano rimetteva al suo posto la ciocca ribelle di capelli scuri che le solleticava la fronte.

- Se me lo misurassi, avrei il battito a mille. – sbuffò Day in un ghigno nervoso, eppure non le sfuggi quella punta di amara nostalgia che languiva nelle iridi color smeraldo del ragazzo. 

Lo conosceva bene quel senso di insoddisfazione, il desiderio tremendo di rimanere legati a quel gioco al massacro, di non essere messi da parte.

Fin da bambina, lo aveva visto negli occhi di suo padre quel timore irrazionale di affrontare la mancanza, di riprendere un posto nel mondo, accanto a qualcuno, senza più sapere come colmarlo.

- Andrà tutto bene. – mentì Yael, platealmente, perché non era la sua vita, non più e Day aveva ancora l'occasione di cambiare le cose. Non lasciare che la vita facesse il suo corso, lasciandolo indietro.

- E vedi di non mandare all'aria il mio lavoro. – continuò poi, l'indice sottile puntato alla clavicola fasciata, con una leggerezza che, in realtà, non sentiva fino in fondo.

- Promesso, tenente. – gracchiò divertito il sergente di rimando, la zazzera bionda che affondava di nuovo nel cuscino in un sospiro roco.

La porta dell'hangar si spalancò all'improvviso e una folata di gelida aria montana rimbalzò impertinente sulle pareti in cemento, sempre più in alto, fino alla lamiera di copertura. La luce del sole, già bassa dietro il profilo degli Urali, disegnava curiose geometrie sui contorni sbiaditi delle figure sulla soglia.

- Tenente Williams, siamo qui per i feriti. – abbaiò asciutto uno dei due soldati all'ingresso, le fattezze irriconoscibili sotto gli occhiali da sole e l'elmetto scuro.

Yael annuì appena, meccanicamente, ma non sarebbe stato necessario. Non aspettarono la sua approvazione per entrare in un assordante stridio metallico, mentre la barella da trasporto aereo scorreva spedita nel ventre immacolato della piccola corsia.

La dottoressa li sorvegliò manovrare i suoi pazienti con l'attenzione di un falco, le dita sgraziate afferrare di peso il sergente per farlo atterrare in un secco hop sul lettino arancione, aiutare il caporale Sanderson malfermo sulle stampelle fino all'uscita.

Li seguì fino alla pista, nel pulviscolo fine che ancora alitava sul cemento, fondendosi alla luce rossastra del tardo pomeriggio screziata di nubi dense, violacee. Fu sorpresa nel vedere, poco lontano dall'elicottero da trasporto ormai quieto, il profilo in ambasce dell'intera 141 schierata in un goffo e silenzioso saluto.

D'istinto, sorrise, sorpassando le fattezze solide e ingolfate nelle divise tattiche dei quattro uomini. Le parve una visione strana, quasi grottesca e, al contempo, così familiare da richiamarle dentro una curiosa fitta di nostalgia.

- Addio, Sanderson. Non affrettare le cose. – chiosò, un attimo prima che la zazzera castana del caporale sparisse nel ventre vuoto e metallico del velivolo.

Non era riuscita a trattenere una nota accorata nel tono volutamente neutro e dovette coglierla anche il ragazzo, perché le sembrò fosse rimbalzata piacevole sui contorni del sorriso di sincera gratitudine.

Wait for me || John "Soap" MacTavish (Call Of Duty) x OCDove le storie prendono vita. Scoprilo ora