Capitolo 29

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Londra, sei anni prima

Daniel aprí gli occhi, e per un istante si illuse che fosse una mattina come tante altre.
Con la sveglia che lo tirava giù dal letto, la corsa per arrivare in orario alle lezioni, e la fatica a tenere concentrazione e occhi sui libri.
Quella mattina però non fu così. Non appena provò a tirarsi su dal letto, il dolore che avvertì, gli fece tornare alla memoria ogni istante della sera precedente.
La festa alla confraternita, i suoi amici rinchiusi in quella stanza al piano di sopra e le loro intenzioni malsane, e quella ragazza, che tanto avrebbe voluto portare via da quello schifo, ma non ci riuscì.
Un pugno aveva arrestato ogni suo tentativo di trarla in salvo.

Arrancò fino allo specchio del bagno, per poterci vedere riflesso quel livido  viola che gli colorava mezza faccia. Prese dall'armadietto degli analgesici e ritornò sotto le coperte. Non era proprio il caso di dare spettacolo in giro.

Tornò a frequentare le lezioni dopo cinque lunghi giorni, quando il livido sul volto stava ormai scomparendo. La vita parve riprendere allo stesso ritmo di prima, e per fortuna per un pò nei corridoi, non incrociò lo sguardo di quelli che, fino a poco tempo prima, aveva imparato a considerare come suoi  amici.

Tra una lezione ed un altra, incontrò di nuovo Emily. Parlarono, curiosando tra le loro vite, i loro interessi, le loro passioni, e Daniel fu felice di dedicarle quel tempo, perché si era detto che, quella ragazza,  valeva proprio la pena di conoscerla.

Un pomeriggio finite le lezioni, azzardò proponendole un gelato e quattro passi, e lei contenta accettò. Davanti a due coni panna e cioccolato, non solo scoprì che in quanto a dolci avessero gli stessi gusti, ma soprattutto apprese stupito, che Emily fosse la figlia più piccola del rettore dell'ateneo. Come aveva fatto allora, a sfuggirgli il suo cognome??? Se lo era domandato almeno
una decina di volte prima di riaccompagnarla fino alla biblioteca, poi rinunciò a trovare la risposta, perché mentre la salutava, aveva trovato le sue labbra. Ed erano dolci. Ed erano buone.

La tregua durò l'intervallo di due festini ai quali Daniel non partecipò.
Quel sabato sera c'è ne sarebbe stato uno per la chiusura del semestre, ed Emily insistette per partecipare. Ormai facevano coppia fissa. In biblioteca erano sempre insieme, a mensa sedevano allo stesso tavolo, ed anche se non si dimostravano il loro amore tenendosi per mano o scambiandosi effusioni davanti a tutti, entrambi sapevano di appartenersi, ed a loro bastava.

Davanti la confraternita dei Black Hoole, Daniel teneva la mano di Emily stretta forte tra le sue, in un gesto di spontanea protezione.
L'azzurrino delle assi di legno della casa, si combinava perfettamente con il rosso delle tegole e con il bianco candore delle enormi finestre in stile Tudor.
Il giardino verde e curato, aveva le stesse dimensioni di un campo da football.
Emily prima di arrivare alla festa, gli aveva parlato del proprietario dell'immobile. Travor Farrell era il capitano dei Black Hoole, ed il figlio maggiore di un famoso e ricco avvocato.
Non era felice di averla assecondata per andare a quella stupida festa. Avrebbe di gran lunga preferito rimanere in stanza a guardare vecchi film e a mangiare pop corn.
A quel festino parve prendere parte l'intero ateneo. La casa dava l'impressione di esplodere e lanciare ragazzi in aria da un momento all'altro. Daniel si guardò ancora una volta in giro, studiando tutto ciò che li circondava e poi arrestò i suoi passi rivolgendosi alla ragazza di fianco a lui

« sicura di voler entrare ? Potremmo tornare in stanza e stare più tranquilli noi due » , ma Emily sembrava irremovibile dalla sua decisione « ti prego fallo per me. Restiamo un paio di ore e poi andiamo via. Ti va ?» . Gli andava? Assolutamente no. Ma come poteva dire no a quei due occhi che lo stavano supplicando? « e va bene, ma non allontanarti da me». Emily gli si lanciò al collo e lo baciò.

La musica era assordante, e nell'aria incominciava a sentirsi l'odore di fumo e sudore. Daniel non perse di vista la sua chioma bionda, non concedendosi di staccargli gli occhi di dosso per tutta la sera, fino a quando lei aveva insistito per andare a spettegolare con le sue amiche in un'altra stanza, e non era servito opporsi.
L'orologio diceva chiaramente che era passata mezz'ora, ed Emily se la sarebbe fatta bastare perché Daniel era intenzionato a trovarla, prenderla di peso e portarla via da quell'inferno.
Ma in quale stanza si erano nascoste? Quando si erano allontanate, mischiandosi nella calca di gente, Daniel non era riuscito a seguirla con lo sguardo, e adesso si ritrovava a bussare ad ogni dannata porta.

Gli bastò aprirne una, per essere dolorosamente riportato all' incubo di qualche sera prima. I volti dei ragazzi che aveva davanti erano ancora incapaci di mascherare la pura soddisfazione per l'orrore che stavano commettendo, ma perse ogni briciolo di lucidità, quando si accorse che l'oggetto del loro divertimento quella sera, era la sua Emily.

New York

Due giorni, e due lunghissime e interminabili notti in cui si ripeteva sempre quello stesso incubo.
Daniel si alzò madido di sudore e con l'immagine di quegli occhi impauriti ancora impressa nella mente come se fosse un ricordo fresco, invece che vecchio di sei anni.
Dopo aver conversato con Sara due sere prima, l'aveva mandata via con una risposta ben chiara. A qualsiasi gioco quella donna stesse giocando, lui non ne avrebbe preso parte.

Guardò l'orologio appeso in cucina che segnava solo le quattro del mattino. Dalla tasca della giacca lasciata sulla sedia la sera prima, estrasse il telefono e cercò il numero di Vincent, il suo investigatore privato. Vista l'ora si limitò a lasciargli solo un messaggio in segreteria, ma l'indomani non appena l'avesse ricontattato, gli avrebbe subito intimato di mettersi alla ricerca dell'ombra che si nasconde dietro Sara Cross, e una volta scoperto il nome, lo avrebbe fatto a pezzi con le sue mani.

Il suono del cellulare lo fece saltare di colpo giù dal divano.

« Sono le dieci del mattino, dove cazzo sei finito amico?» , quel rompiscatole del suo migliore amico per poco gli fece rischiare l'infarto.
« a casa » si limitò a rispondere.
« cosa diavolo ci fai a casa di mercoledì mattina, quando dovresti essere seduto sulla tua fottutissima sedia ? Che, per altro è anche comoda. Adesso capisco perché butti le tue giornate in ufficio»
« taci Nate. Stamattina non sono proprio in vena per il tuo umorismo. Cosa diavolo ci fai tu nel mio ufficio piuttosto?»
«Ti cercavo, e la tua assistente è stata così gentile da farmi attendere qui. Hai proprio una bella visuale dalla tua scrivania amico»

« alza il culo dalla mia sedia. Sto arrivando » .

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