Capitolo 20 - Non merito il tuo amore

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L'incendio si propagava come non mai. Le fiamme ardevano e bruciavano ogni cosa che trovavano, senza distinzioni. La gente correva, urlava, si disperava. Chi vedeva i propri amici in preda alle fiamme, chi non aveva la forza di correre, chi preferiva lasciarsi andare e farsi inghiottire da quell'inferno di fuoco per sfuggire alla propria vita. In quel momento sarei dovuto fuggire: proprio come Josh, che aveva abbandonato poco prima la stanza correndo via. Non avevo dubbi essere stato lui a far appiccare il fuoco. Mi rendevo conto che tutti i tasselli erano finalmente a posto: l'immagine che avevo visto nel corridoio della casata York ritraeva una persona dai tratti somatici simili a quelli di Josh: sarà stato suo padre. Poi il suo comportamento: sapeva tutto di tutti. Per non parlare del modo in cui mi ha portato ad odiare Cole, l'unico che sarebbe potuto intervenire per farmi capire la verità. Ero stato uno stupido, mi ero fatto manipolare. Cole... dovevo assolutamente andare da lui. Vedere se stava bene. Io dovevo...

-Tom stai giù!- sentii urlare, di istinto mi abbassai ed evitai di poco una trave che si era staccata dalla parete attigua. Alzai la testa e vidi gli occhi azzurri di Nate Anderson

-Grazie- gli dissi sinceramente, lui annuì

-Non c'è tempo. Dobbiamo uscire di qui- rispose, io mi bloccai

-No, devo tornare indietro. Cole...- dissi, facendogli capire

-Lo cerco io- ribadì lui –Tu esci di qui-

-No, voglio trovarlo io. Scusa, Nate- lui sbuffò e mi seguì attraverso il corridoio. Corsi a più non posso: dovevo trovarlo, dirgli che l'amavo, chiedergli scusa. Avevo sbagliato e mi volevo far perdonare. Volevo sentire il suo corpo, fare l'amore con lui. Volevo Cole. Arrivai alla sua stanza e provai ad aprire la porta, ma era chiusa a chiave dall'interno.

-Cazzo. Cole!- urlai –Cole sono Tom. Scusa, sono stato un coglione- provai, ma non sentivo nulla dall'interno, così guardai Nate, che mi spostò

-Occhio- disse, poi estrasse la pistola e sparò alla serratura due volte, per poi tirare un calcio alla porta. Entrai in stanza e la vidi vuota. Nate aspettava fuori. Era... senza un suo perché. Vuota, bianca, indescrivibile. Non sentivo il calore di Cole, non sentivo il suo spirito, non lo vedevo. C'era un pezzo di carta sul divano. Mi avvicinai e lo sollevai tremante, leggendo le parole ad alta voce:

''Lenta fiocca la neve pe 'l cielo cinereo: gridi,
suoni di vita più non salgono da la città,

non d'erbaiola il grido o corrente rumore di carro,
non d'amor la canzon ilare e di gioventù.

Da la torre di piazza roche per l'aere le ore
gemon, come sospir d'un mondo lungi dal dì.

Picchiano uccelli raminghi a' vetri appannati: gli amici
spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.

In breve, o cari, in breve – tu càlmati, indomito cuore –
giù al silenzio verrò, ne l'ombra riposerò.''

(G. Carducci 1835-1907)

Non merito il tuo amore

-Cole

Le gambe mi cedettero e mi sorressi col divano. Respiravo a fatica, non per via del fumo: avevo capito il significato di quelle parole, di quella poesia. Volevo piangere ma non potevo, volevo urlare, gridare al mondo, gettarmi tra quelle fiamme che, incessanti, riempivano il vecchio edificio. Ma mi feci forza. Dovevo farlo. Piano, aprii la porta del bagno e lo vidi: lì, disteso nella vasca, i polsi tagliati, l'espressione rilassata:

-No, no, no, no, no, no!- Urlai, correndo e gettandomi addosso al ragazzo

-Cole. Amore mio- dissi, scoppiando definitivamente a piangere –Perché...-

La parte razionale che era in me mi impose di alzarmi, e così feci. Estrassi il telefono dalla tasca ma non vi era segnale come al solito. Presi due asciugamani e provai a tamponare le ferite autoinflitte verticalmente sulle vene, ma aveva perso troppo sangue per sopravvivere. Continuavo a tamponare, nonostante il liquido avesse ormai cessato di fuoriuscire. Non volevo crederci. Non era vero. Non poteva esserlo. Lui doveva essere vivo. Lui era Cole Marianne, e Cole Marianne non moriva. Un braccio mi afferrò da dietro e mi fece smettere di tamponare inutilmente i polsi ormai quasi tumefatti per l'assenza di sangue. Scansai il braccio rabbiosamente, continuando a tamponare i polsi

-Non c'è nulla che tu possa fare- disse Nate, con il suo solito modo gentile. Io non riuscivo a contenermi

-Cole... ti amo. Ho sbagliato. Se mi stai sentendo- dissi, controllando un battito del cuore ormai assente –Se mi stai sentendo scusa- riuscii a dire, tra i singhiozzi disperati. Mi fiondai sulle sue labbra, assaporandole, per l'ultima volta. Non si muoveva, non aveva reazioni. Le sue labbra erano fredde, senza vita. Senza amore. La sua vita era stata portata via, o meglio, se l'era tolta per colpa mia. Provavo quella sensazione di vuoto che viene malamente descritta nei film o nei libri. Era molto peggio. Lui era morto, io ero vivo. Non era giusto.

Non avrei più potuto baciarlo, non avrei potuto sentire il suo corpo, la sua bellissima risata, le sue battute macabre ma spiritose, vedere i suoi tatuaggi. I suoi occhi, ora vuoti e senza anima, prima pieni di vita e di gioia, segnati dalle sofferenze del passato. Le sue mani, fredde e immobili, prima erano calde e accoglienti. Di Cole sarebbe sempre vissuto il ricordo, vivido, nel mio cuore e nella mia mente. Il mio amore per lui, ammesso troppo tardi. Il suo amore per me, mai dimostrato nel modo corretto. Due vite, le nostre, destinate a unirsi e a spezzarsi ripetutamente, fin quando lui non ha deciso di recidere definitivamente il filo che lo univa a me. Lui non c'era più: Cole Marianne era morto.

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