Ragazza liberiana

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1988. Londra.
Dodici anni dopo.

MICHAEL'S POV

Me ne stavo seduto davanti a un grande specchio dalla cornice di legno. Mi osservavo. Osservavo l'uomo nello specchio che appariva pallido e stanco. Allungai la mano verso il vetro, quasi a voler accarezzare quel volto tirato.
Per un attimo mi parve di vederlo trasformarsi sotto i miei occhi, cambiare e diventare il ragazzo dalla pelle scura e i capelli afro di dodici anni prima, quel ragazzo che dormiva dentro il mio animo, desideroso di poter tornare.
Ma avrebbe continuato a dormire per sempre, povero fanciullo abbandonato. Io ero cresciuto. E quando si cresce, non si torna più indietro.
Il tempo si era portato via tutto quello che restava di quel ragazzino: la fiducia nel prossimo, i sogni, la meraviglia per la vita. Perfino il colore della pelle era cambiato: a ventitre anni mi ero ammalato di vitiligine, una malattia devastante per gli uomini di colore. Avevo perso la pigmentazione della pelle, che, da nera che era, ora era bianca come il latte. Guardarsi allo specchio e vedere una persona completamente diversa di giorno in giorno é destabilizzante.
Ero stanco della vita, delle persone che avevo attorno. Stanco di tutto quello che i media avevano da dire su di me: mi etichettavano come un pazzo, uno stravagante. Mi accusavano di aver volontariamente cambiato il colore della pelle per rinnegare le mie origini. Tutte balle. Io ero orgoglioso delle mie radici e avrei fatto di tutto per ritornare a essere quello di un tempo. Ma é la natura che decide per noi, il destino gioca le nostre carte. E il mio ne aveva giocato una rischiosa e allo stesso tempo vincente: quella del cambiamento più radicale, verso un nuovo Michael Jackson, più forte, più irraggiungibile e leggendario.
Dodici anni prima avevo affidato il mio desiderio a una stella, che lo aveva realizzato: ero l'uomo più conosciuto al mondo, avevo battuto ogni record di vendita mai esistito. Ero famso, ricco, desiderato.
Oh maledizione, ero così tremendamente solo.
Mi ero liberato di mio padre, in compenso. Ora avevo un vero manager, era come un padre per me. I Jackson Five non esistevano più, sebbene io non me ne fossi mai veramente andato dal gruppo. Io e i miei fratelli avevamo semplicemente preso strade diverse.
Continuavo a guardarmi negli occhi. Avrei voluto chiedere a quell' uomo stanco se almeno fosse felice. Mi avrebbe detto di si, che lo era, ma non del tutto. Mi avrebbe detto che mancava qualcosa, quel qualcosa che nel cuore della notte a volte lo opprimeva e gli strigeva la gola.
Mi ritornarono alla mente gli anni di Encino, gli anni migliori della mia vita.
Io ero tornato. Un paio di anni dopo ero rientrato in quel quartiere. Avevo trovato Nadim e Samir, i miei amici. Calde lacrime di gioia e nostalgia ci avevano inondato il viso quando fummo di nuovo insieme. Non erano cambiati. Loro erano lì, mi avevano aspettato confidando nella mia promessa.
Loro.
Ricordo bene come mi batteva forte il cuore nel petto quando bussai al portone della loro casa. Mi aspettavo di vedere anche un' altra persona. Pensavo che due anni non fossero niente.
Ashley però non c'era.
Nadim e Samir mi spiegarono che se ne era andata poco dopo la mia partenza, a cercare fortuna insieme alla sorella. In più, Mark e gli scagnozzi della bettola le avevano quasi catturate e così avevano deciso di andare via il prima possibile.
Ricordo bene il dolore che provai: Ashley, la mia Ashley, sparita per sempre e lontana da me col cuore e la mente. Io pensavo spesso a lei. Le avevo dedicato una canzone, "Liberian Girl", ragazza liberiana. Con tenerezza ricordavo i suoi racconti sulla Liberia, il suo paese d'origine. Chissá se in tutti quegli anni ci era tornata, se aveva rincontrato sua madre. Avrei tanto voluto rivederla.
Non perché sperassi che il suo cuore appartenesse ancora a me, dodici anni sono tanti. Avrei voluto rivederla per vedere come era diventata, se anche lei, come me, era cambiata nell' aspetto e nel carattere.
É dura quando i bei momenti si trasformano in bei ricordi, perché ciò che un tempo ti rendeva felice, ora ti uccide.
Quel vortice di pensieri fu interrotto dall'aprirsi della porta.
"Fratello, sei pronto? Ti porto in albergo"
Adoravo la voce di Nadim, sempre allegra e soddisfatta.
Avevo portato i miei amici con me. Nadim era diventato il mio autista personale, mentre Samir era il mio segretario. Gli avevo offerto un lavoro in modo che anche i loro sogni potessero avverarsi, come si era avverato il mio. Non erano più due poveri ragazzi di strada, ma due uomini rispettabili e benestanti.
Avevo permesso che Samir partisse per la Finlandia, come desiderava. Avevo aiutato la loro famiglia che si trovava ancora in Arabia. Ero felice di poter fare tanto per gli altri.
"Si Nad, portami a casa. Questo concerto mi ha sfinito" dissi, strofinandomi la faccia con la mano.
"Sei stato eccezionale però. Quanta strada che hai fatto amico mio, da quando facevi quelle piroette sceme sulla terrazza!"
Mi tenne compagnia finché non arrivammo in hotel, dove Samir mi attendeva:
"Ho sistemato tutta quella pila di scartoffie Mike. Domani sera hai un appuntamento con un certo Clyton Harris, vuole farti un' intervista. Non é un giornalista qualunque, é una persona importante, mi hanno detto"
Alzai gli occhi al cielo. Non mi piace ricevere i giornalisti, per importanti che siano sono tutti così maledettamente ipocriti.
"Va bene Sam, grazie. Ora vai a dormire. Ci vediamo domani"

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