Capitolo 29

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Alyssa's pov
Il suo sguardo mi trafigge, avevo imparato con gli anni che gli occhi potevano essere usati come un'arma e il dolore poteva essere tanto forte quanto uno schiaffo, bruciore e terrore.
La sua zazzera di capelli rossi è rimasta come la ricordavo, nè più lunga ne più corta come se fossero tagliati a millimetro mentre le sue lentiggini che tanto somigliavano alle mie sembravano essersi schiarite e diminuite.
Mi sorrideva come si sorride a un tuo nemico prima di farlo a pezzi e avevo sentito la mia pelle accapponarsi. C'era un dettaglio in quel nuovo sogno, non ero più una bambina, per la prima volta ero proiettata nel mio attuale corpo e una nuova forza mi pervadeva ma non sapevo a quale scopo avrei dovuto usarla.
Mi sorrise, quei denti leggermente ingialliti dall'alcool e dalle numerose sigarette che fumava risplendevano sotto la luce tenue della stanza, le sue parole mi fecero rabbrividire.

"Ti ho trovato, Aly" mi risveglio strozzando a stento un urlo e il movimento brusco del corpo mi strappa un gemito di dolore, le bende sono ancora lì, la gamba ingessata e il polso sembrano chiedere la mia attenzione ma so di non poter fare nulla. Mi guardo intorno e il solito odore di disinfettante mi ricorda che sono ancora qui, tra le pareti spoglie di quest'ospedale, il ragazzo disteso sul lettino accanto al mio dorme serenamente e mi perdo a guardarlo, le sue labbra dischiuse non emettono nessun suono, alcune ciocche del suo ciuffo lungo gli ricadono sul volto e il suo corpo è rannicchiato in posizione fetale, le braccia muscolose posate davanti al viso. Un brivido corre attraverso la spina dorsale e so che non è dovuto alle temperature che stavano calando in vista dell'arrivo dell'autunno, era lui a farmi quell'effetto, lo faceva da sempre e solo quando mi aveva sussurrato quelle parole durante il mio coma mi sono resa conto di quanto avessi bisogno di lui per riuscire ad avere una speranza.

Ma categoricamente no, non potevo abbandonarmi a un sentimento, non quando mi sentivo una pazza. Il mio cervello vagava per ore, anche quando qualcuno era lì a parlare, sentivo sussurri, voci, parole e immagini, ma ogni volta che mi sforzavo di ascoltare venivo colpita da un dolore acuto.
Mi alzo afferrando le stampelle vicino al mio letto e mi dirigo in bagno, non mi soffermo sull'immagine riprodotta dallo specchio, quando pochi giorni prima lo avevo fatto ero rimasta sconvolta, il viso sfregiato da numerosi graffi, segno che durante l'atterraggio la mia faccia era entrata in collisione con la strada strusciandosi su essa, il viso pallido e magro e i capelli che contornavano il viso creando una specie di nuvola.
Fare una doccia sarebbe impossibile dal momento che non riesco nemmeno a stare in piedi, rientro in camera facendo attenzione a non fare nessun tipo di rumore e guardo la sveglia sul comodino, segnava le 5.20.
Raccolgo dal piccolo cassetto vicino al mio letto una felpa e appoggiandomi al letto cerco di infilarmela facendo più attenzione possibile, cerco il pacchetto di sigarette che mi ero fatta comprare da Ania il giorno prima e sempre con la massima cautela esco dalla stanza. Il dottor Igor mi aveva assicurato di poter uscire senza accompagnatore ma solo se mi fossi fermata nel giardino antistante al grande edificio.

Prendo l'ascensore riservato ai pazienti e mi dirigo verso l'uscita.
Adocchio una panchina un pò nascosta alla vista da un'albero e mi dirigo lì con passo incerto, non credo avrei mai imparato ad usare decentemente quelle stampelle.
Mi siedo stringendomi al corpo quella felpa calda, alzo il cappuccio e chiudo la cerniera cercando di limitare i danni, porto la sigaretta alle labbra e l'accendo.

Il mio sguardo vaga sul tutto il giardino, sono sola tranne qualche infermiere che di tanto in tanto si sofferma davanti alla porta per fumare, come me.
La mia testa scoperchia il solito "vaso di Pandora" come lo avevo soprannominato e iniziano le domande, quelle che non riuscivo a risolvere.

Il primo pensiero ricadde su mia madre, non la vedevo da quando, 3 giorni prima mi ero risvegliata dal coma. Ero a conoscenza del fatto che venisse regolarmente in ospedale, Dean me lo raccontava, ma non capivo il perchè non si soffermasse a salutarmi, a parlare con me.
Qualcosa dentro di me mi suggeriva che non doveva venire, che c'era una risposta a questa domanda e ne ero a conoscenza, ma qual'era? Mi sembrava di star combattendo contro un muro, picchiavo, mi facevo male le mani a forza di dare a pugni ma quando ero esausta trovavo solo una misera crepa e un dolore acuto alla testa a farmi compagnia.

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