Capitolo 10 - Marco's pov

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Prima di lasciarvi alla lettura del capitolo vorrei fare una premessa. A causa di una piccola incongruenza tra questo capitolo e il precedente abbiamo dovuto modificare una frase del capitolo 9: in realtà, anche se Venditti gliene ha parlato, Marco non ha ancora mai incontrato l'investigatore né è a conoscenza del suo nome... Insomma, ancora non sa neanche chi sia.

Detto questo, a voi il nuovo capitolo. Buona lettura!

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Ci sono quelle mattine in cui c'è bisogno di un coraggio immane per tirarsi fuori dal letto.

Gli eventi degli ultimi mesi avevano infierito su di me più di quanto potessi ammettere a me stesso. Appena sveglio, cercavo di fuggire ogni mattina la sensazione di oppressione che mi inchiodava a letto, anche detta consapevolezza. Consapevolezza di dover affrontare un'altra giornata lavorativa. Consapevolezza di dover offrire vuote parole di conforto ai miei dipendenti. Consapevolezza di dover infondere sicurezza nel mio capo, convincerlo che tutto si sarebbe risolto e che era solo una questione di tempo. Ma non ci credevo neanche io. Non ci avevo mai creduto ed ero ormai diventato l'attore ottimista di me stesso, che nascondeva a tutti la parte di sé soffocata dall'angoscia, come fosse uno sporco segreto.

Per fortuna c'era Lorenzino, unico testimone dei miei crolli e delle mie crisi di rabbia, anche se cercavo il più possibile di contenermi davanti a lui. Del resto, anche lui aveva i suoi problemi da gestire.

A quel punto, solo un caffè come si deve sarebbe stato in grado di risollevarmi dalla mia autocommiserazione mattutina. Come un filo invisibile, quell'unico pensiero mi avvolse le caviglie, guidando i miei piedi a infilarsi nelle pantofole e a dirigersi verso la cucina.

Adocchiai la stanza con fastidio: l'ambiente era così asettico da ricordarmi la banca. Mi appuntai mentalmente di portare mio cugino a fare acquisti: sarei sicuramente diventato matto se non avessimo reso il nostro appartamento più confortevole il più presto possibile, un luogo degno di essere chiamato "casa".

Mi trascinai verso la credenza e aprendo l'anta mi ritrovai a fissare il vuoto. La richiusi con un sospiro sconfitto: niente caffè. Quale modo migliore per iniziare la giornata?

Mi vestii velocemente e silenziosamente, nel tentativo di non svegliare Lorenzo con i miei movimenti. Ero più che determinato ad uscire ed entrare nella prima caffetteria che avesse attirato la mia attenzione sulla strada verso la banca.

La mia passeggiata aveva da poco avuto inizio quando il mio sguardo fu catturato da un'insegna in legno con su riportato Come lo fa la Nonna. Ebbi come la sensazione di dover cercare la familiarità che non avevo trovato quel mattino in casa mia in quel bar, decisi quindi di entrarvi.

Come non detto. Dalle pareti, al bancone, al pavimento e all'odore di chiuso, qualsiasi cosa in quel luogo trasudava degrado. L'insegna, l'ingresso e le tende oscuranti riuscivano magistralmente a celare il locale malmesso che mi si parava davanti. Speravo di potermi dare alla fuga prima di farmi notare ma l'omone dietro al bancone - presumibilmente il barista - mi stava già fissando con un'aria di aspettativa mista a minaccia.

A quanto pare dovrò rinunciare al "fatto come si deve" e accontentarmi del solo "caffè", probabilmente accompagnato da "alla meno peggio".

Rassegnato, presi posto direttamente al bancone e il più vicino possibile all'uscita, con l'obiettivo di svignarmela non appena avessi finito la consumazione. Ordinai un caffè amaro e ricevetti un grugnito d'assenso in risposta. Che delicatezza.

Due sedie più in là un uomo dall'aria rispettabile, vestito con abiti da ufficio, aveva il naso pronunciato immerso in una cartella blu contenente immagini in bianco e nero che dalla mia postazione non riuscivo a identificare. Sembrava estremamente concentrato nell'osservazione delle immagini quando, sovrappensiero, prese un sorso dal caffè che aveva davanti e il viso gli si accartocciò come un foglio di carta gettato nel fuoco.

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