Capitolo 14

429 38 0
                                    

Nowaki sentì la porta della stanza aprirsi e si girò a guardare chi fosse, sentendosi immediatamente più sollevato non appena i suoi occhi incontrarono quelli di Hiroki. Finalmente era tornato. Come aveva immaginato, era stato via più tempo di quello strettamente necessario per andare ai distributori e tornare, e aveva intuito anche che lo aveva fatto di proposito per lasciare lui e Hanako da soli, in modo che potessero parlare.

Gliene era stato davvero grato. Non appena si era allontanato, malgrado la voce affaticata, Hana-chan non aveva smesso per un momento di raccontargli tutte le cose che non aveva potuto dirgli in tanti anni, ma soprattutto gli aveva espresso tutto l'affetto fraterno che gli era tanto mancato di lei.

Ma ora era solo felice che Hiro-san fosse tornato al suo fianco.

Dopo aver parlato per mezz'ora, Hanako si era talmente stancata che si era assopita. Il suo respiro era affannoso malgrado la maschera per l'ossigeno e, con lo sguardo del medico, Nowaki aveva intuito che quel momento si avvicinava sempre più.

Non poteva affrontarlo da solo.

Hiroki gli si avvicinò e gli appoggiò una mano sulla spalla, porgendogli con l'altra la lattina di caffè che aveva preso apposta per lui. Allo sguardo interrogativo di Nowaki, si strinse nelle spalle, minimizzando il gesto.

«Da quanto è che non mangi?»gli chiese a bassa voce, notando che Hanako stava riposando.

«Non riesco neanche a ricordarlo» sospirò Nowaki.

«Come sta?»

L'unica risposta che riuscì a dare fu scuotendo la testa e Hiroki capì, perché la sua mano scivolò lungo il suo braccio fino a insinuare le dita tra le sue, stringendo piano.

Allora Nowaki appoggiò stancamente la testa contro il petto del suo Hiro-san e si lasciò cullare dal forte battito cardiaco che riusciva ugualmente a percepire anche attraverso i vestiti.

Rimasero così per diversi minuti, senza dire una sola parola, ognuno immerso nei propri pensieri, ma confortati dalla reciproca vicinanza e calore.

Si riscossero e si separarono solo quando la porta della stanza si aprì di nuovo e ne entrò una signora di una certa età. Nonostante la penombra, Nowaki riconobbe all'istante quella silhouette.

«Kusama-sama» esclamò, scattando in piedi e andandole incontro. Le porse le mani e la donna non esitò un istante ad abbracciarlo. Quando lo lasciò andare, gli prese il viso tra le mani guardandolo negli occhi, gesto che le aveva visto compiere un numero infinito di volte sia nei suoi confronti che in quelli degli altri bambini dell'orfanotrofio.

Kusama-sama aveva sempre elargito affetto a piene mani, per cui Nowaki non poteva in tutta onestà dire di avere avuto un'infanzia povera d'amore nonostante la mancanza di veri genitori. Per lui, Kusama-sama era madre più della donna che l'aveva messo al mondo.

Ma quel particolare tocco della direttrice significava molto di più. Significava comprensione. Significava conforto e sostegno.

Ricordò che l'ultima volta che l'aveva ricevuto era stato quando aveva raccontato a Kusama-sama del suo litigio con Hiroki, subito dopo il suo ritorno dal viaggio-studio in America, quando il suo adorato Hiro-san gli aveva detto di non volerlo più vedere e avevano dato spettacolo nei corridoi dell'università. Allora si era sentito disperato. Gli sembrava di aver perso in un istante tutto ciò per cui aveva tanto duramente lavorato. Non sapendo a chi altri rivolgersi, si era confidato con l'unica persona al mondo che, fino a quel giorno, l'aveva sempre sostenuto indiscriminatamente. Come ogni volta, Kusama-sama gli aveva dato i suoi buoni consigli e non si era pentito di averle dato ascolto.

Non come quando aveva litigato con Hanako, invece. In quell'occasione aveva preferito dare retta al suo stupido orgoglio ferito e quella notte ne stavano tutti pagando le conseguenze, Hana-chan per prima.

«Non farlo.»

Le parole appena sussurrate di Kusama-sama interruppero il flusso dei suoi ingarbugliati pensieri.

«Cosa?»

«Non sentirti in colpa per qualcosa di cui non hai colpa, figlio mio.»

Nowaki sospirò. «Kusama-sama, abbiamo già fatto questo discorso. Mi piacerebbe moltissimo, ma purtroppo non sono tuo figlio.»

«Wacchan, io ho già risposto tantissime volte a questa tua affermazione. Il legame di sangue è più importante di quello del cuore? Per me sei mio figlio al pari di Hanako, Tadashi, Ayako e Kaoru. Ho scelto io il tuo nome la notte che ti lasciarono sulla porta di casa mia. Davvero cambia qualcosa il fatto che non ti ho partorito?»

Sotto il peso di quella domanda, Nowaki abbassò la testa.

Naturalmente lei aveva ragione. L'aveva cresciuto donandogli lo stesso amore materno che generosamente regalava a tutti gli altri bambini che erano stati affidati alle sue cure. Loro la ricambiavano chiamandola madre. Quando era stato abbastanza grande per capire la differenza, solo lui si era intestardito a usare quel rispettoso Kusama-sama che, però, rendeva dolorosamente evidente che non era realmente suo figlio.

«No, hai ragione, okaasan» ammise. Alla fine ce l'aveva fatta. Alla fine, anche lui l'aveva chiamata mamma.

L'emozione era ben visibile sul volto della donna quando lo strinse a sé in un altro abbraccio, prima di notare alle spalle del figlio la presenza di un'altra persona.

«Oh, Hiro-san.»

Hiroki le rivolse un piccolo inchino di saluto.

Quando lei gli si avvicinò e gli diede una carezza sul viso, Nowaki poté leggere lo stupore nello sguardo di Hiro-san. Lui, che aveva rifuggito come la peste ogni forma di coccola fino a che non era riuscito ad ammorbidire almeno un pochino le spigolosità del suo carattere perfino nei suoi confronti, era stato spiazzato dal tocco affettuoso della donna.

«Grazie per essere qui» gli disse poi in un sussurro.

«Non potevo lasciare solo Nowaki» le rispose lui.

Kusama-sama annuì seriamente prima di avvicinarsi al letto di Hanako, prendendole una mano.

«Wacchan, dovresti telefonare a tuo fratello e alle tue sorelle. Anche loro vorranno salutare Hanako.»

Junjou in TroubleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora