XI.

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Dopo aver parlato dell'infanzia di Jan e di quanto fosse migliorato con il tempo, secondo sua madre, i signori Kessler si dirigono verso la loro stanza, che si trova nella prima porta a sinistra delle scale, mentre i fratelli vanno in una camera che si trova al pianterreno, anche se Helena non è entusiasta di dormire nella stessa stanza del fratello.

Io e il mio fratellino dormivamo nella stessa stanza, visto che la casa era molto piccola e c'erano solamente due stanze.
Questo però non mi è mai dispiaciuto, anzi. Era davvero divertente stare svegli tutta la notte a raccontarci storie inventate sul momento e vedere quale fosse la più divertente.

Mi mancano quei tempi, in cui l'unica preoccupazione che io e mio fratello avevamo era di non essere sgridati da papà perché facevamo confusione di notte e non riusciva a dormire.
Ora invece quella preoccupazione ha lasciato il posto a tante altre nella mia testa: il campo, la paura della morte, il benessere di mio padre e di mio fratello al campo e Kessler.

Nonostante prima si sia dimostrato completamente diverso da come lo avevo sempre visto, temo che quella sia solo una facciata e che non sia la realtà.

Quando tutti se ne sono andati nella loro stanza, io mi dirigo verso la cantina dove sono solita a dormire, ma sento la voce di Kessler che dice:

"Oggi puoi dormire nel mio letto. Io dormirò sulla poltrona".

Ho capito bene? Vuole che dorma nella stessa stanza dove dorme lui?
È da moltissimo che non dormo in un vero letto, da quando siamo andati a casa di Uma per nasconderci dai Nazisti.

Salgo le scale e mi dirigo verso la sua camera.

"Tieni. Questa è una vestaglia pulita. Se vuoi puoi usare il bagno per toglierti il trucco. Fra mezz'oretta arrivi anche io, così hai il tempo di cambiarti.

"Grazie mille, Ufficiale Kessler" dico io, prendendo in mano la vestaglia color cipria che aveva in mano Kessler.

"Chiamami Jan" dice lui, sorridendo e uscendo dalla stanza.

Mi tolgo il bel vestito che avevo quella sera e mi infilo la vestaglia.
Poi, vado in bagno e mi tolgo la maschera di trucco che Jan mi aveva messo per nascondere la mia faccia piena di lividi.

Sembriamo due Johanna diverse: una bella, truccata ed elegante, poi c'è la vera Johanna, la ragazza ebrea che ha subito violenze inaudite e ingiustificate.

Mi fermo davanti allo specchio per circa una decina di minuti e poi ritorno in camera.

Mi siedo sopra il letto e nel frattempo Jan rientra nella sua camera, con una bottiglia mezza vuota di birra in mano.

Si cambia davanti ai miei occhi, incurante del fatto che c'è anche un'altra persona nella stanza.

È davvero bello. Ha un fisico scolpito, ma cosa mi potevo aspettare da un Ufficiale bello come lui?
Ad un certo punto, mi giro dall'altro lato per evitare che lui sappia che lo sto fissando.

Non appena ha finito di infilarsi il pigiama, scoppia a ridere.

"Ora puoi girarti, ma che se non c'era bisogno, visto che non ero completamente nudo" dice, ridendo.

"Non mi sembrava il caso, tutto qui" dico io, girandomi.

"Buonanotte" dice lui, sedendosi sulla poltrona e chiudendo la luce.

Improvvisamente apro gli occhi e mi ritrovo a Varsavia, ma non la Varsavia attuale, quella Nazista, la Varsavia prima dei Tedeschi, prima di questo incubo.
È primavera e sento il profumo della moltitudine di fuori che ci sono nei davanzali del mio quartiere e nei prati.
Un profumo che ormai non sento da moltissimo tempo e che manca da morire.

"Johanna, torna subito qui!" sento urlare mio padre, dietro una ragazzina di appena sedici anni che scappa dalla finestra della propria camera.

Questa ragazzina corre per circa un chilometro senza nemmeno stancarsi, poi si ferma.
Si ferma davanti ad un parco, con molti bambini che giocano insieme alle loro mamme e ai loro papà.
Un immagine che a me fa salire moltissima tristezza.

Da quando la mamma è morta, io, papà e mio fratello non andavamo spesso al parco, quasi mai.
A papà ricordava la mamma: a lei piaceva moltissimo andare al parco prima che io e mio fratello fossimo anche lontanamente nei loro pensieri.

La ragazzina che scappava dal padre va verso una panchina vuota e si siede.
Parla con una signora anziana, sulla settantina, della città e di come fosse bella in questo periodo dell'anno.
La signora le fa delle domande su di lei e sulla famiglia e le racconta dei suoi nipotini, Yulia e Sigmund, che stanno proprio giocando davanti a loro.

Quella ragazzina sono io.

Sto guardando la bella scena di me e questa signora che ridiamo e scherziamo e ad un certo punto l'ambiente intorno a me cambia:

diventa tutto grigio e cupo, mentre dal parco piano piano spariscono tutti i bambini, sparisce la me sedicenne e anche la signora. Al nostro posto ci sono camionette militari, bandiere Naziste su ogni palazzo che vedo e davanti a me, un soldato tedesco che prende per i capelli una giovane donna polacca e la sbatte a terra.
Prende la pistola e le spara.

Corro immediatamente verso la donna e vedo che nel suo giaccone c'è cucita una stella gialla a sei punte. La stella di David. È ebrea.

Mi giro di scatto e vedo Jan Kessler dietro di me con una pistola puntata sulla mia fronte e premere il grilletto.

Apro gli occhi e mi ritrovo nella stanza di Kessler, con lui che si alza di scatto e apre la luce.
Io comincio a piangere, senza sosta.

"Tutto bene Johanna?" dice lui sedendosi accanto a me.

"Era primavera, avevo sedici anni e stavo parlando con una signora. Poi è diventato tutto grigio, un soldato uccide una ebrea e tu mi spari in fronte" dico, singhiozzando.

"È solo un incubo" dice lui, abbracciandomi.

"Sembrava così reale" dico io, soffocata dalle mie stesse lacrime.

"Mi dispiace" dice lui, ancora abbracciato a me.

Dopo dieci minuti mi tranquillizzo e lui si alza.

"Ti prego rimani vicino a me" dico io, con ancora qualche lacrima che mi riga il viso.

Lui si sdraia vicino a me e mi stringe in un abbraccio forte.

"Stai tranquilla. Finché sarai qui, nessuno ti farà più del male. Te lo prometto" dice Kessler, spegnendo la luce della lampada.

WIE EINE SCHWARZE ROSE Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora