capitolo tre

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La tranquillità con la quale avevo aperto gli occhi associata alla totale solitudine, mi aveva lasciato una sensazione assai piacevole, così da rendere il mio primo risveglio fuori dall'orfanotrofio uno dei più belli.

Il materasso, accogliente per la sua morbidezza e il soffice tessuto, mi aveva risparmiato i lancianti dolori corporei che, invece, era solito lasciarmi il compatto materasso dell'orfanotrofio, privo di qualsiasi cenno di comodità e che per questo motivo, spesso mi aveva dato la sensazione che il mio corpo avesse potuto spezzarsi in due, data la sua rigidità.

Per cui, se vivere con il Signor Styles indicava simili momenti aggraziati, probabilmente mi sarei sforzata di adorare la sua presenza.

Il suo comportamento della notte precedente aveva procurato una grave confusione all'interno della mia mente, poiché le sue spiegazioni erano state decisamente contraddittorie; e cioè, aveva parlato di un socievole rapporto con me basato sul rispetto reciproco, riprendendo però gli aspetti che mi riportavano alla mia sottomessa posizione nei suoi confronti.

Non era da tutti avere una reazione così controllata e matura, una volta aver scoperto il soggetto del quale eri responsabile mentre si lasciava incantare da una sigaretta, ma forse anche per questo motivo ero rimasta totalmente intimorita dal suo atteggiamento.

Insomma, aveva ben messo in chiaro che fossi sotto la custodia della sua figura, il suo portamento sembrava quasi come volermelo rinfacciare con una sfacciataggine da togliere il fiato, in particolar modo da incitare l'odio nei confronti di quella stessa persona; e questo forse poteva essere un lato del suo reale obliato volto.

Ciò nonostante, la situazione non la vedevo tanto grave come in realtà poteva sembrare. Non mi sentivo forzata a tormentarmi con pensieri riguardanti l'argomento, se lui per primo mi aveva spiegato che non si voleva mettere nei panni di un mio genitore; aveva principalmente parlato di rispetto, e con ciò probabilmente intendeva riferirsi anche alla fiducia.

Il ragionamento decisi di non riprenderlo quando mi incamminai nel bagno della stanza, il mio personale quindi, per farmi una lacerante - positivamente - doccia; pensavo fosse inutile girarci intorno senza mai arrivare ad una conclusione.

Una volta entrata nella vasca, dimenticai qualsiasi esistenziale problematica, rimanendo distratta dalla stanza della mia camera, quale era l'opposto del gabinetto a cui mi ero abituata in orfanotrofio, se poi davvero dovevo definirlo tale quel putrido cesso pubblico.

Specialmente quando avevo bisogno di una calda e accogliente doccia, le giovani orfane con le quali condividevo i bisogni prima erano pronte a tormentarmi con le loro estenuanti occhiate, d'altronde pericolosamente preoccupanti arrivato un certo punto.

Percepivo il loro sguardo anche solamente rivolta di spalle, sapendo che stessero giudicando ogni mio singolo passo. Mi ero ritrovata svariate volte tentando di escludermi dalla loro visuale, eppure quei modi sfacciati che avevano ero solita ad incrociarli il giorno seguente.

Man mano che incominciai a crescere, tuttavia, cercai di abituarmi ad esse, finché non divennero altro che persone irrilevanti e superficiali; in questo modo mi liberai dell'arroganza che erano solite lasciarmi quelle ragazze maliziose.

In quel collegio solo durante pochi attimi della giornata potevi prenderti cura di te stessa in disparte. Facevano sosta così tante ragazze in quel bagno ristretto, cercando di impostarsi la massima bellezza addosso, con miseri trucchi e gioielli rubati, pari alla loro educazione.

Aver piantato tutto questo era difficile da realizzare, perché dopo averci sperato per interminabili anni era sul serio arrivato il momento, ma perdendo quel fascino che tutte le orfane si aspettavano; ora non mi interessava più di tanto farmi una doccia senza sentirmi violata, anche se chiaramente mi faceva terribilmente piacere farlo, mi importava piuttosto del mio futuro.

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