capitolo sedici

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Forse in quella mattinata impegnativa che aveva ancora da trascorrere, l'unica ragione che avrebbe potuto sollevare il mio umore era il buongiorno dell'ammirevole Paul, l'autista.

Era appena scoccata la campanella della pausa pranzo e superando tutti quegli affannati studenti, cercavo di arrivare al posto sotto l'albero che ero solita occupare insieme ai miei amici.

Ero ancora frastornata dopo aver passato un intero giorno in compagnia del Signor Styles, anche se non avevamo fatto nulla di preciso, quindi mi sentivo principalmente disorientata.

Vedevo la mia figura come sopra un filo legato tra due pali opposti, in bilico, se fossi caduta avrei fatto qualcosa di sbagliato, ma se fossi rimasta in piedi ancora per molto, in un modo o nell'altro avrei avuto dei gravi cambiamenti d'umore.

Credevo che fosse dovuto al timore di sbagliare qualcosa con quell'intrigante uomo, il solo pensiero della sua modesta corporatura accaniva il mio nervoso a tal punto da rendermi suscettibile.

Al momento e già in passato, trovavo così imbarazzante avere a che fare ogni giorno con qualcuno di intimo, che conosceva ogni tratto della mia figura, perciò non ero nemmeno più in grado di incontrare il suo sguardo.

Il suo ruolo procace dominava in un modo stimolante la mia intimità, in sua presenza il mio corpo era solo un pezzo di carne che veniva trascinato continuamente in situazioni che comprendevano complessi stati d'animo e un'attrazione permanente.

Avevo raggiunto un periodo della mia vita in cui il mio corpo prendeva un sentiero diverso rispetto ai miei pensieri, dove i punti fermi della mia poetica non erano più perspicui e non erano capaci di orientarsi nella vita reale.

La notte il mio sonno era stato bloccato da una serie di interpretazioni, nelle quali venivo raffigurata in compagnia del Signor Styles durante un appassionante rapporto di letto, quindi arrivai al punto di provare una sorta di suicidio tra le coperte.

Enfatizzavo di continuo la nostra relazione, pur cosciente dell'effetto che avesse tra le mie gambe e della reazione consecutiva che mi veniva in mente poco dopo, alla concretizzazione della mia condotta.

Durante quella fredda giornata, immaginai di dover parlare con qualcuno, di fare affidamento su un'altra persona con lo solo scopo di affievolire quel peso che giaceva sul mio animo, almeno per il tentativo di consolarlo.

Era forse la prima volta che arrivavo a pensare a qualcosa del genere, ma per me era già un grande passo ammettere di aver necessità d'aiuto, quindi in quel momento capii di essermi avventata sulle spalle di William e Katherine.

Avevo cominciato ad osservarli da lontano, mentre lentamente mi dirigevo nella loro direzione e fissavo ogni singolo movimento, cercando di capire come avrei potuto superare le mie difficoltà proprio quando il cielo intorno a me era del tutto oscurato.

"Ciao Mar!" Katherine mi salutò per prima.

"Ciao Bellezza" William seguì.

"Ciao" borbottai.

"Stavamo parlando di Natale, William deve badare ai suoi fratelli più piccoli perché i suoi genitori devono partire in Europa dai nonni" disse Katherine.

"Già, ma meglio così, non voglio vedere quei due vecchietti" affermò lui.

"Perché?" chiesi.

"Non accettano il fatto che sia omosessuale, quindi cercano continuamente di farmi cambiare idea sul mio orientamento" rispose William.

"Io non so ancora cosa farò, mamma deve occuparsi di alcune faccende di lavoro e credo anche papà, quindi ancora non riusciamo ad organizzare nulla" affermò Katherine.

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