|Error 404: File Not Found| |Kōshi Sugawara|

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10:37  AM 100% Mercoledì 23/05/2084

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La ringraziamo per aver scelto AndroidNet.
Le auguriamo una buona giornata.




La pioggia cadeva violenta contro il vetro delle ampie finestre, producendo quel rumore rilassante tipico della pioggia.
Il cielo era di un grigio opaco e per le strade l'odore della pioggia pervadeva l'ambiente, infilandosi all'interno degli abiti di chi si era ritrovato fuori casa con quel tempaccio.
Le luci degli ologrammi dei lampioni illuminava le gocce di pioggia che, furiose, cadevano dal cielo, infrangendosi al suolo o sui visi delle persone, o dei loro compagni di latta.
Dai palazzi vicini, le fredde luci bianche delle lampade, degli ologrammi, dei led o semplicemente di una lussuosa televisione, filtravano dalle vetrate, infrangendosi sui marciapiedi bagnati, mentre le macchine sfrecciavano a tutta velocità per le strade.
Il vento freddo colpiva i bei fiori piantati nelle fioriere sull'ampio balcone di quell'appartamento, mentre all'interno della casa un bel caldo aleggiava, intorpidendo gli arti freddi.
Al contrario di tutte le case in quella palazzina grigia, cupa e malinconica, al contrario di tutte le abitazioni nei paraggi, così fredde, minimaliste, senza colori, senza passioni, senza sentimenti, e senza delle storie, quell'appartamento racchiudeva ogni singolo particolare delle vite delle persone che avevano avuto il privilegio di chiamare quelle stanze 'Casa'.
Qualche buco era stato nascosto malamente da dei disegni ormai afflosciati, la carta vecchia, sullo stipite di una camera diversi segni erano stati posti in crescendo, di due diversi colori: con il pennarello bianco, i segni erano iniziati dall'anno 2037, recitando 'Takeshi-6 anni', ed erano continuati fino al 2048, 'Takeshi-17 anni'. I restanti segni erano di un allegro violetto, ed avevano iniziato a comparire nell'anno 2039, poco sotto i segni bianchi, 'Sumire-5 anni', e si erano cimentati in una gara con le stanghette bianche, superandole quando su una di quelle violette, gli anni segnati erano 16, e venendo nuovamente oltrepassate quando ormai le stanghette viola erano finite, nel 2052, rimanendo per sempre sotto quella misera linea biancastra, che segnava un anno in meno della partecipante.
La camera a cui si affacciava lo stipite era ormai vuota, piena soltanto di scatoloni e vecchi ricordi, come il muro ammaccato da un pugno di rabbia, o la scritta ribelle di un pennarello indelebile sul bel muro color crema, recitante il nome della cottarella presa, con diversi cuoricini a circondarla.
Al suo fianco, una camera ben più grande era illuminata solo dalla luce di qualche lampo esterno, che metteva in risalto gli antichi mobili di legno chiaro, ed il letto matrimoniale, mentre la luce dei lampi faceva risplendere il vetro di alcune cornici sui comodini e sulla cassettiera, affiancate da diversi libri, ben curati e senza polvere, mentre le belle pareti di un rosso opaco sembravano tremare all'intensità del temporale.
Passando invece alla stanza principale, il salotto, l'ambiente acquisiva istantaneamente un'aria più intensa, significativa, come se fosse quella la camera più vissuta della casa, nella quale gli abitanti passavano più tempo. Era la parte più grande della casa, ricolma di piante e fiori sugli scaffali e sulla libreria attaccata al muro di mattoncini color crema.
Lo spazio nella stanza era occupato per la maggior parte da un grande e vecchio divano bianco, ormai a terra, ma pur sempre comodo, e da una bella poltrona a righe bianche e rosse, davanti al grande camino acceso, a poca distanza dalla libreria di legno di ciliegio. Il fuoco riscaldava l'ambiente freddo, facendo contrasto con i freddi led delle altre case, mentre le sue lingue di fiammeggianti emanavano un rassicurante calore e riflettevano le loro scintille sui vetri delle numerose cornici che affiancavano le rigogliose piante.
Le corone che circondavano quei momenti di felicità e di allegria, variavano dalle fantasie più eleganti a quelle più stravaganti e bambinesche, dai materiali più economici a quelli più costosi, ed avevano ricevuto il compito di custodire quei ricordi preziosi e di mostrarli con orgoglio, cercando di attirare l'attenzione e di rievocare alla mente i più bei momenti di una vita.
Le foto intrappolate dallo stretto e protettivo abbraccio di quelle cornici raffiguravano maggiormente due volti ben distinti, un ragazzo, ed una ragazza che, con l'andare delle fotografie e del tempo, erano diventati un uomo ed una donna.
Rispettivamente, l'uomo aveva dei delicati e dolci lineamenti, così come era lo sguardo nei suoi grandi occhi castani. Sotto l'occhio sinistro, un raffinato-o così gli piaceva definirlo-neo attirava l'attenzione, rubandola ai suoi folti capelli dalle sfumature argentee, disordinati, sempre per aria, mentre il suo ampio e bel sorriso gli illuminava il volto chiaro, facendo arrivare scintille luminose ai suoi allegri occhi.
Sempre al suo fianco, la donna sorrideva raggiante all'obbiettivo della fotocamera, più felice che mai, in ogni foto. Eleganti e femminili tratti del viso la contraddistinguevano insieme al suo smagliante sorriso, mentre i [l/c] capelli [c/c] le incorniciavano il bel volto allegro ed innamorato. Gli occhi [c/o] guardavano persi il compagno in qualche foto, circondati dall'alone rossastro delle sue gote ed addolciti dalle sue lunghe e folte ciglia, mentre l'amore nelle sue iridi si intensificava.
In alcune foto, i due erano accompagnati da diversi ragazzi, ancora molto giovani, tutti con la stessa divisa scolastica o sportiva, una in particolare, dove esultanti innalzavano una coppa dorata verso il cielo, sorrisi lunghi chilometri e lacrime gioiose lungo le loro guance.
Un'altra foto attirava l'attenzione, sempre accompagnati dai loro amici, vestiti più eleganti che mai con i loro smoking neri, mentre l'uomo teneva a braccetto la sua donna, un vaporoso ed elegante vestito bianco ad accarezzarle le dolci forme, mentre i sorrisi illuminavano la foto insieme agli spruzzi di champagne aperto dietro di loro dai loro amici.
Poco più in là negli scaffali, dopo un'altra foto dei loro visi in lacrime dopo il matrimonio, dove lo scintillio dei loro anelli dorati prendeva il sopravvento sui loro sorrisi, altre lacrime erano versate, mentre tra le braccia della donna, con i capelli un casino, le guance rosse ed il sudore sulla fronte, un fagotto azzurro era stretto, ed il viso del marito era smagliante di gioia nel pianto. Sotto, nell'angolo, con un pennarello nero, la scritta 'Benvenuto al mondo, nostro Takeshi!' faceva la sua comparsa. Diverse foto più avanti, sempre raffiguranti il pargolo crescere con folti e riccioluti capelli [c/c] e occhi castano chiaro, costantemente insieme ai genitori, quasi la stessa foto ricompariva, con la sola differenza che, questa volta, tra le braccia della donna, un fagotto rosa veniva osservato curioso dal bimbo e dal padre, con le guance umide e rosse , che stava accarezzando la guanciotta candida della figlia, adorante, mentre la scritta 'Benvenuta al mondo, nostra Sumire!' aveva fatto la sua comparsa nuovamente.
Da lì in poi, la crescita dei due bambini era diventata il ricordo principale da custodire.
Immortalare la piccola Sumire, dai lunghi e mossi capelli argentei, le guance rosate e i grandi occhi [c/o], crescere sempre di più insieme al fratello Takeshi, che con l'avanzare del tempo aveva inforcato un paio di occhiali rotondi, dalle rifiniture dorate, era la priorità, e l'avanzare del tempo sui genitori non sembrava più importante.
Un'ultima foto raffigurava gli stessi volti sorridenti dei due, con qualche ruga in più e la pelle raggrinzita, insieme ai loro, ormai anche loro, vecchi amici, prima di tornare a concentrarsi sui figli e i loro matrimoni, e successivamente sui meravigliosi pargoli che avevano fatto diventare la coppia dei nonni.
La loro vita era custodita lì, in quelle cornici mai impolverate, e contava di rimanere custodita lì per sempre, a far ricordare, con l'unico scopo di mai far dimenticare i sorrisi, le risate, la gioia, l'allegria, e le lacrime versate.
Con l'unico scopo di far ricordare la propria vita, quando la vecchia memoria dava cilecca.
Con l'unico scopo di far ricordare che, quella vita, non era stata vissuta invano.
E così, in quel tempaccio che quel giorno aveva deciso di aggredire la sua cittadina, riscaldata da quel fuoco caldo e guizzante che si ritrovava davanti, seduta sulla sua prediletta poltrona dalle righe rosse e bianche, e coperta da una leggera coperta di cotone bianco, la stessa donna raffigurata nelle foto, leggeva beata un libro.
Il suo viso, anni addietro giovane e senza alcun tipo di imperfezione, era ora scarno e raggrinzito, ricolmo di rughe, ingrandite dagli occhiali da vista che indossava. Le dita che stringevano le pagine del consumato libro erano secche, le vene facilmente visibili tanto la pelle era diventata fragile, e le nocche e le congiunzioni delle dita più visibili rispetto ad una volta.
Il Tempo è spietato, e su di lei non aveva avuto pietà, così come con chiunque, ed i suoi corti capelli bianchi, fragili come paglia, ne erano una dimostrazione.
Ma i suoi occhi [c/o] non erano cambiati, erano sempre avvolti da quel velo di dolcezza ed amore che li contraddistinguevano, anche se con un pizzico di inconscia tristezza in essi.
Continuava a leggere tranquilla, guardando di tanto in tanto fuori dalla finestra, preoccupata che la consegna potesse essere disturbata dal tempaccio che fuori regnava.
Guardò il suo orologio da polso, e la annoiò notare che fossero ancora le quattro di pomeriggio.
Da giovani, il Tempo passava così veloce, che avrebbe voluto acchiapparlo con una corda e fermarlo, o rallentarlo un poco, ed ora, dalla cima della sua anzianità, si rendeva conto quanto fosse noioso aver finalmente tra le mani quella corda, e vedere il Tempo passare così lento, inesorabile, spaventoso.
Sospirò ed appoggiò la testa allo schienale, osservando il soffitto bianco e quella macchia blu che Takeshi aveva lasciato anni addietro quando aveva lanciato il pastello ripetutamente verso il soffitto, con l'intento di disegnare il cielo, quasi la parete fosse diventata il suo foglio da disegno.
Sorrise leggermente, alzandosi successivamente, decisa a prendersi un bicchiere d'acqua, la gola secca, ma si bloccò sui suoi passi, quando una voce metallica le arrivò all'udito.
"Signora [T/n] Sugawara, sta ricevendo un pacco da: AndroidNet. Numero ordine: 58678. Desidera accettare la richiesta? Una quota di pagamento sarà richiesta se confermerà l'ordine."
A quelle parole, [T/n] si precipitò allo Smaterializzatore, una colonna circolare bianca, con uno spazio centrale ed un piccolo display sul contorno, illuminato.
Prese il pennino al fianco del display e, con voce sicura, confermò l'ordine, vedendo un pacco a dimensione umana iniziare a venir smaterializzato nel mezzo della colonna, con diverse particelle azzurrine e, una volta completata la smaterializzazione, vide i bracci metallici dell'apparecchio posarlo a terra, per poi attendere la firma della donna e la conferma delle impronte digitali, eseguendo così il pagamento e causando lo spegnimento del macchinario.
Si voltò vero il pacco, vicino al salotto, e ne rimase incantata per qualche secondo prima di voltarsi verso la cassettiera al fianco del macchinario.
Era un mobile di legno scuro, sopra al quale, un piccolo tempio in legno di quercia era stato posato, circondato da diversi fiori bianchi e rosati, innaffiati ogni giorno con una cura amorevole, mentre al centro la foto dell'uomo, invecchiato, ma sorridente ed allegro, era stata posata, ed osservava la casa con quei suoi occhi castani.
Kōshi, suo marito, sembrava la stesse guardando dalla prigione di vetro nella quale la sua foto era stata posata, e [T/n] ricambiò lo sguardo, le lacrime che tentavano di uscire mentre accarezzava con le dita la cornice ed il vetro.
Il cuore le doleva al solo ricordo, alla sola vista del suo viso angelico, quasi risentendo le sue mani sul suo corpo, le sue labbra sulle sue guance o la sua voce sussurrarle nelle orecchie.
Sorrise alla foto.
Le mancava più di qualunque altra cosa la mondo.
Avrebbe voluto andarsene insieme a lui, vedere la luce con lui, ma era lì da sola.
Anche se, pochi minuti dopo, ne era certa, Kōshi sarebbe stato nuovamente al suo fianco, come una volta.
Il Tempo era stato crudele, e lei non lo avrebbe perdonato, nemmeno quando anche la sua ora sarebbe arrivata.
Diede un'ultima carezza alla foto prima di avvicinarsi allo scatolone, spostandolo con non poca fatica al centro del salotto, inginocchiandosi poi vicino ad esso.
Con le mani raggrinzite che le tremavano, aprì il pacco e subito il biglietto delle istruzioni le saltò alla mano.
Diede una letta svelta prima di lasciarlo da parte e togliere di mezzo tutto il polistirolo che era racchiuso in quella scatola, fino a quando ciò che cercava fu scoperto.
All'interno dello scatolone, avvolto dal restante polistirolo, un corpo dalle stesse sembianze del marito era rannicchiato su sé stesso.
Era giovane come un tempo, e sembrava dormire beatamente, il viso rilassato e calmo, senza nessuna ruga o grinza sulla pelle candida e pulita.
Indossava una tuta aderente bianca, con disegnato sul pettorale destro il logo dell'AndroidNet, ma [T/n] non lo guardava minimamente.
Piangeva, invasa dalla nostalgia, dal dolore al petto che il cuore le dava martellando così velocemente, sovrastata dai ricordi.
Subito si affrettò a sciogliere i nodi dello scotch che era stato attaccato ai suoi polsi e alle sue caviglie, impaurita che avrebbero potuto fargli male, non percependo la freddezza della sua pelle non umana.
Era felice, era di nuovo lì con lei, ed era vero.
Non poteva crederci.
Avrebbe potuto vivere nuovamente col suo Kōshi, avrebbero condiviso nuovamente ricordi felici, lo avrebbe di nuovo sentito ridere, avrebbe rivisto il suo sorriso smagliante e le sue braccia sarebbe tornate ad abbracciarla giorno e notte, come avevano sempre fatto.
Dopo aver tolto lo scotch, si affrettò a prendere il libretto delle istruzioni, leggendolo come fosse un manuale per svegliare qualcuno da un lungo sonno, perché era così che lei lo vedeva.
Quasi fosse stato ibernato anni addietro, e fosse stato mandato a casa sua.
Per lei, in quel momento, Kōshi era ancora vivo, davanti a lei.
Dopo aver capito come attivarlo,-o nella sua testa, come svegliarlo-spostò dalla sua tempia i morbidi capelli argentei, e tenne premuto un pulsante sulla tempia, a cui le non fece troppo caso, fino a quando una luce verde non venne emanata da esso, per poi scomparire, confondendosi con il colore chiaro della sua pelle.
L'androide aprì gli occhi, e a [T/n] sembrò un miracolo.
Con movimenti meccanici, l'androide si alzò e si erse in tutta la sua altezza, ancora con i piedi nudi dentro allo scatolone.
[T/n] lo guardava ammaliata, con ancora le lacrime agli occhi, che lo vedevano proprio come una volta, identico.
Lo stesso neo sotto l'occhio sinistro, gli stessi capelli argentei folti e scombinati, la stessa pelle candida e calda, lo stesso corpo giovane ed atletico, il suo tipico sorriso e gli stessi occhi amorevoli di una volta.
Ma la realtà, era ben diversa.
Davanti a lei, l'androide non aveva niente dell'uomo che lei aveva amato, perché quello stesso uomo, era ormai passato a miglior vita.
Quella davanti a lei, era una macchina, programmata dall'uomo per avere sembianze umane, e a cui lei stessa aveva dato quell'aspetto, decidendo però di rimuovere il ricordo, quasi fosse stata in trance nel momento in cui l'aveva comprata.
Tutto quello che vedeva lei, era offuscato dai ricordi, dalla tristezza che le attanagliava il cuore, e non le permetteva di vedere la cruda realtà.
Per quanto la sua 'pelle' potesse essere candida come quella vera, non era per niente calda, ma fredda come il metallo che era, i folti capelli erano semplici capelli artificiali, il sorriso che lei vedeva, era un'espressione neutra, senza emozioni, e i suoi occhi, erano vuoti.
Era lo stesso castano, ma la scintilla non c'era, l'amore non era mai esistito in quegli occhi finti, e l'affetto non era stato programmato.
Tutto in quella macchina si distaccava dal vero Kōshi Sugawara, ma lei si rifiutava di vederlo.
Le labbra dell'androide si aprirono per parlare, e [T/n] sentì male al cuore quando vide quelle labbra muoversi, sentendo la stessa voce melodiosa di suo marito, che le parlava amorevolmente mentre, in realtà, era una voce fredda, senza alcun tipo di sentimento, e totalmente diversa da quella che sentiva lei.
"Sono l'androide della AndroidNet, modello numero quindicimila ottocento novanta. Desidera darmi un nome?"
[T/n] sorrise.
Poverino, era così confuso! Non si ricordava nemmeno il suo nome!
Ma si disse che era una cosa normale, aveva dormito per così tanto tempo dopotutto!
Gli prese la mano, stringendola forte, ma non ricevendo nessuna reazione dall'androide.
[T/n] pensò fosse imbarazzato, a giudicare dalle sue guance rosate, che in realtà era il riflesso della luce calda del fuoco.
"Amore, tu sei Kōshi Sugawara! Tranquillo, ti aiuterò a ricordare tutto!"
L'androide chiuse gli occhi, aprendoli pochi secondi dopo.
"Nome impresso nella memoria."
"Visto? Ti sei già ricordato il tuo nome!"
La donna sorrise alla macchina, ma non ottenne nessuna reazione, rimase immobile, gli stessi occhi vitrei di un bambola.
[T/n] continuava a guardarlo, adorante ed incredula, sopraffatta da quella effimera felicità che in quel momento le invadeva il cuore, illudendolo, ed illudendo sé stessa, mentre la sua mente contagiata dalla malinconia cercava di reagire.
Strinse più forte la sua mano, e lo fece uscire dallo scatolone.
"Vieni caro, facciamo il giro della casa, ti rinfrescherà la memoria!"
Se lo portò dietro, mostrando alla macchina le diverse parti della casa, mentre quella analizzava tutto, memorizzando nella RAM le indicazioni che la donna le dava ma, giustamente, non comprendendo tutti i ricordi che la donna cercava di fargli tornare alla mente.
Parlava dei suoi figli, come se fossero anche dell'androide che si trovava in casa, non notando l'espressione senza vita della macchina, che intanto aveva inciso nella sua memoria artificiale le informazioni riguardo i figli della sua nuova proprietaria.
Arrivarono in cucina, e subito [T/n] si mise ad armeggiare con qualche piatto nel frigo, scaldandolo velocemente nel microonde, continuando a raccontare mentre aspettava che il cibo per suo marito fosse pronto.
Aveva dormito per così tanto! Come faceva a non essere affamato?
"Takeshi l'altro giorno ha portato dell'ottimo ramen fatto da sua moglie, tieni. Sarai affamato, tesoro!"
Lo fece sedere a tavola e gli pose davanti la ciotola di ramen caldo, sedendosi al suo fianco, in attesa che iniziasse a mangiare, in completa trance mentre lo guardava voltarsi verso di lei con un bel sorriso, e muovere le labbra.
"Non posso mangiare, signora Sugawara."
"Cosa vuol dire che non puoi mangiare? Avanti, è buono!"
Spinse più avanti la ciotola, mentre la macchina continuava a tenere i suoi occhi su di lei.
"Se ingerissi ogni tipo di cibo umano, i miei componenti verrebbero danneggiati, e smetterei di funzionare, signora Sugawara."
La vista iniziò a tremarle, e quasi ci fosse un glitch nella sua testa, vide a spezzoni ciò che la realtà le presentava davanti, ancora offuscata però dal velo di disperazione e malinconia che le aveva circondato la mente.
Le mani le si mossero da sole, e prese per mano l'androide una seconda volta, con un sorriso tirato sul viso stanco.
Andava tutto bene, era solo stanco e un po' intontito, era normale farfugliasse cose senza senso!
Decise di lasciar stare il cibo e lo portò davanti alla libreria, dove la maggior parte delle foto erano state posate, e gli rivolse un sorriso.
La sua mente, per quanto malata, aveva iniziato a farla ragionare, ma lei si rifiutava di credere alla realtà, non avrebbe resistito all'impatto.
Era così ovvio che lui fosse lì con lei! Bastava solo fargli ricordare tutto, e anche lei sarebbe stata più tranquilla!
"Guarda Kōshi! Qui è quando hai vinto con la Karasuno i nazionali, eri così felice, piangevi pure! Qui eravamo andati in Spagna e qui in America! Ti ricordi?"
Si voltò verso Kōshi, guardandolo speranzosa mentre i suoi occhi castani esaminavano le persone nella foto, specialmente l'uomo che portava il suo stesso volto.
Chiuse gli occhi, analizzando le informazioni su quella persona, sempre in compagnia della sua nuova proprietaria, più giovane, e li riaprì, voltandosi poi verso l'anziana donna.
"Quello è Kōshi Sugawara, nato il tredici giugno millenovecentonovantanove, sposatosi con [T/n] [T/c] nel duemila ventisei, a ventisette anni."
[T/n] sorrise più felice che mai.
Si ricordava! Si stava ricordando della loro vita!
Il cuore iniziò a batterle più velocemente ed il velo attorno alla sua mente si stava infittendo sempre di più.
"Si! Vedi? Ti sei ricordato! E di questo giorno ti ricordi?"
Allungò la raggrinzita mano verso la foto del loro matrimonio, ma si bloccò improvvisamente, quando la non più dolce voce del robot le giunse all'udito, bloccandole il cuore e distruggendo uno strato del velo.
"Kōshi Sugawara è morto il quattordici novembre del duemila ottantatré, a ottantaquattro anni, dopo un operazione al cuore. Corretto?"
[T/n] si voltò verso la macchina con gli occhi spalancati dal terrore e le guance arrossate dall'agitazione, mentre il cuore aveva ricominciato a pompare sangue velocemente.
Afferrò la foto del matrimonio, stringendola forte.
"No! Non sei morto, non dire stupidate! Tu sei qui, con me, non capisci? E-ecco, guarda questa..è la foto del nostro matrimonio, lo hai detto prima, ricordi?"
Il robot analizzò la foto, ed annuì.
"Questa foto raffigura il giorno del matrimonio di Kōshi Sugawara e della sua consorte, [T/n] [T/c]."
La donna sospirò sollevata.
Lo sapeva, aveva semplicemente farneticato!
"Certo! Eravamo così felici quel giorno! Prova a ricordare!"
Kōshi obbedì e, chiudendo gli occhi, analizzò la propria scheda di memoria, non trovando ciò che la donna gli aveva chiesto di ricordare.
Dopotutto, non erano state installate le emozioni, nel suo programma.
"Errore 404: file non trovato."
Un altro strato venne rimosso, e gli amorevoli occhi di Kōshi ora la guardavano vitrei, ghiacciati.
[T/n] tremò, ma lasciò perdere trovando l'ennesima scusa, e prendendo invece le foto dei loro figli, ponendogliele sotto lo sguardo.
"E di loro? Dei nostri bambini hai qualche ricordo, Kōshi? Ti ricordi di Takeshi e di Sumire, non è vero?"
La sua voce era ormai disperata, cercava di aggrapparsi ad ogni appiglio, a qualunque cosa che le permettesse di rimanere in quella realtà perfetta, non notando però, che si stava solo arrampicando sugli specchi mentre il velo si districava dalla sua mente.
La macchina richiuse gli occhi e, quando li riaprì, la risposta fu la stessa.
"Errore 404: file non trovato."
Il tremore alle mani iniziò a diventare una convulsione e la stretta sulle foto aumentò mentre i dolci occhi [c/o] della donna, da dietro le lenti degli occhiali, si inumidivano.
"Come puoi dire una cosa del genere..? I nostri bambini non sono dei file, Kōshi! Ti prego, ricordati chi sei, per favore!"
Fece cadere le cornici ed esitante, si aggrappò al corpo del robot, realizzando solo in quel momento quanto fosse freddo, nonostante fossero davanti al camino.
Non sentiva il suo torace alzarsi al ritmo del respiro, non sentiva il suo cuore pulsare, ma nonostante tutto, non voleva crederci, non poteva assolutamente crederci.
La risposta della macchina, non tardò ad arrivare.
"Io sono l'androide della AndroidNet, modello numero quindicimila ottocento novanta, di proprietà di [T/n] Sugawara."
Batté un pugno contro il petto metallico di Kōshi, vedendolo sempre meno come il marito amorevole che era una volta al suo fianco, e sempre di più come la macchina che aveva comprato il giorno prima, offuscata dalla depressione e caduta in un momento di negazione.
"No! Tu sei Kōshi, mio marito! Sei mio marito! Il padre dei miei figli...Il nonno dei miei nipoti! Ricorda! Ricorda!"
Le gambe non la reggevano più, erano troppo deboli.
Rimaneva soltanto un ultimo velo ad offuscarle la mente, e questo le bastava a continuare a provarci, continuare a credere che suo marito non fosse morto poco meno di un anno fa dopo un operazione rischiosa, ma che fosse lì davanti a lei, continuando a sorriderle dolcemente.
Il suo sorriso, l'unica cosa che, ancora, vedeva umana in quell'ammasso di ferraglia modellata a forma umana.
Priva di un cuore.
Priva di sentimenti.
Priva di coscienza.
Priva dei ricordi che infestavano dolorosamente quella casa.
Priva dell'amore che lei ricercava.
Priva di tutto ciò che l'avrebbe resa umana.
Priva di tutto ciò che l'avrebbe resa il suo Kōshi.
L'androide parlò, la voce fredda e metallica.
"Signora Sugawara, mi spiace, ma io non sono suo marito. Suo marito, Kōshi Sugawara, è deceduto. Io sono l'androide che ha acquistato dalla AndroidNet. La mia scheda di memoria non contiene ciò che lei chiama 'ricordi', o ciò che lei chiama 'felicità'."
[T/n] si accasciò a terra nel momento in cui anche l'ultimo velo fu rimosso dalla sua mente depressa, e le fece aprire gli occhi sulla realtà, facendo scomparire il bel sorriso del marito dal volto meccanico dell'androide, lasciando che l'espressione priva di sentimenti dell'androide prendesse il sopravvento.
Iniziò a piangere, osservando le foto sul pavimento di lei, suo marito e i suoi bambini, rendendosi conto quanto la depressione l'avesse consumata, quanto Kōshi le mancasse, quanto fosse persa senza di lui, e quanto fossero dolorosi quei ricordi protetti dalle belle cornici della sua casa.
Era stata così ricolma di ricordi, che aveva deciso di eliminare le lacrime di tristezza, sostituendole con lacrime di gioia, le smorfie di angoscia con risate gioiose, urla disperate con urla eccitate, attivando il suo sistema di difesa.
Inconsciamente, la sua mente malata aveva rimosso tutto ciò che c'era di cattivo nei suoi ricordi, e l'aveva fatta vivere serena fino a quel giorno, quando aveva avuto una ricaduta, ed aveva comprato quell'androide per rendere più reali le sue convinzioni.
Ed in quel momento, le lacrime bruciavano come il fuoco del camino sulle sue guance raggrinzite, mentre guardava ancora e ancora la foto della sua famiglia, il cuore stretto dolorosamente in una morsa mentre la realtà la faceva rinsanire dalla depressione e l'androide le si inginocchiava al fianco, facendo ciò per cui era stato programmato: prendersi cura di lei.
[T/n] realizzò che i ricordi, oltre alla cosa che rendeva la vita valsa di essere vissuta, sono ciò che fanno soffrire maggiormente l'anima.
Ed il Tempo, crudele, spietato e sadico, permetteva alla mente di farli ripetere per tutta la vita, fino alla fine.





Angolo Autrice:
Hei!
Allora, ci tengo a specificare che questa idea per la shot mi è venuta in mente molto prima che uscisse il videogioco Detroit: Become Human(chi lo conosce capirà lol). Quindi diciamo potremmo dire che ho preceduto i programmatori del gioco in un certo senso, AH!
Okay no ahah, spero vi sia piaciuta, nonostante sia un argomento abbastanza pesante diciamo.
Grazie della lettura!

Significato nomi dei figli:
-Sumire Violetta
-Takeshi Guerriero


Dedicata a Beantisocial .

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