6. Carne marcia

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«Ascoltami, Emma. Sei sconvolta e sei tesa» la signora Finner accarezzò la guancia di sua figlia e la guardò negli occhi «hai solo immaginato quei rumori o forse venivano da fuori e ti sei impressionata. Io non ho sentito nulla...»

«Mamma, ti dico che li ho sentiti davv...»

«Tutta questa storia ti ha sconvolto, ed è normale, ma non devi reagire così. Domani esci con Rita, stai con lei, distraetevi, non parlate di questa faccenda e divertitevi. È stata una tragedia. Credimi, Emma, non esiste altro modo se non andare avanti» la signora Finner baciò la fronte di sua figlia e raccolse la borsa dalla spalliera della sedia a cui l'aveva appesa. Aveva già indosso il camice bianco del lavoro: le toccava un'altra notte.

«Mamma, solo per questa notte, non puoi restare a casa?» le chiese disperata Emma, quasi vergognandosi di implorare come una bambina che aveva paura del buio.

«Tesoro, te l'ho già detto: non posso. Vai a dormire, domattina ti sveglierai e io sarò già qui. Avrò sempre il telefono con me, chiamami in qualsiasi momento.»

Emma avrebbe voluto dire altro, ma sapeva che nulla l'avrebbe convinta. "Il lavoro è lavoro" era cresciuta con questo comandamento. Il lavoro e il dovere venivano sempre prima di tutto. Sin da piccola era abituata a starsene in casa da sola, e non avere un adulto tra i piedi aveva ovviamente i suoi vantaggi, ma quella notte avrebbe pagato oro per non dormire da sola. Poteva provare a chiamare Rita. Si guardò intorno, alla ricerca del telefono, mentre sua madre usciva di casa e la salutava con tono incoraggiante. Del telefono non c'era traccia, doveva averlo lasciato di sopra, nella sua stanza.

Risalì le scale, piano, attenta a ogni minimo rumore. Ma la casa era avvolta nel silenzio. Aprì la porta della sua stanza. Buio totale: il televisore era spento. Accese la luce e fissò gli occhi sulla parete di fianco al suo letto. La guardò intensamente, come se da un momento all'altro potessero risuonare ancora quei battiti... ma non accadde nulla. Forse sua madre aveva ragione, non era altro che lo stress e la sua immaginazione a giocarle brutti scherzi.

Emma trovò il telefono e inviò un messaggio a Rita.

Sono sola a casa, ti va di dormire da me e farci compagnia?

Guardò per un po' lo schermo, in attesa che le spunte blu le confermassero la lettura, ma quelle tardavano ad arrivare. La luce le dava di nuovo coraggio, fu per quello e perché era stanca, che Emma si sdraiò sul proprio letto in attesa della risposta di Rita e, senza rendersene conto, chiuse gli occhi e dormì.

Sogni agitati. Incubi. Ricordi deformi e grotteschi di giornate felici di molti anni fa, passate con un'amica che non c'era più. Sorrisi inquietanti. Cantilene tremanti, canti di gioia che mutavano in gelidi inni. E all'altezza del cuore, il peso del rimorso.

Emma aprì gli occhi. Era sudata. Non ricordava quello che aveva sognato, ma si sentiva inquieta. Era intontita dal sonno e pervasa da una strana irrequietezza. Se fosse stata più padrona di sé, forse si sarebbe accorta di un dettaglio che invece le sfuggì: la sua stanza era immersa nel buio, ma lei non aveva spento la luce.

La gola le prudeva, aveva sete. Mosse una gamba giù dal letto, per scendere. Ma quella non si mosse. Ci riprovò. Nulla. E poi provò a muovere un braccio e anche l'altro, a voltare la testa. Ma non riuscì a muovere un solo muscolo, nemmeno di un millimetro. Era bloccata nel suo letto, la testa dritta e lo sguardo rivolto al soffitto. Gli occhi, quelli riusciva a muoverli. Guardò a sinistra: non c'era nulla. Guardò a destra: c'era il muro. Storse gli occhi e continuò a osservare il muro: tinto del nero dell'oscurità, immobile, minaccioso. Era come se quel muro le restituisse lo sguardo, anche lei si sentiva osservata.

Ma non era il muro ad osservarla. Sentì il materasso all'altezza dei piedi sprofondare di qualche centimetro... c'era qualcuno, stava salendo sul suo letto e lei non poteva muoversi. Nelle tenebre, udì un respiro, una specie di risucchio roco, forte e breve. Anche Emma respirò: ma i suoi respiri erano più simili a un affanno, a una mitraglietta di fiati spezzati, l'uno dietro l'altro. Sentì un blocco in gola, faticava a respirare. Provò a guardare ai piedi del letto ma, senza muovere la testa, i suoi occhi non riuscivano ad arrivare fin lì. Le tenebre respirarono ancora, e il materasso si piegò sotto il peso di qualcosa, all'altezza delle ginocchia di Emma. Qualsiasi cosa fosse salita sul suo letto, stava avanzando verso lei. E più saliva, più il blocco in gola si faceva fitto: Emma ebbe la sensazione che il mondo le girasse intorno, che tutto si facesse sempre meno riconoscibile e le tenebre più fitte. E la cosa sul suo letto salì ancora. Un alito gelido le fece drizzare gli sparuti e sottili peli sulla pancia. Ora i suoi occhi vedevano... vedevano la cosa che era sul suo letto, su di lei. Era poco più di una sagoma nel buio, un'ombra che vagamente ricordava un uomo, o una donna o meglio ancora una ragazzina... ma non poteva essere reale: nessun essere vivente poteva avere quella testa: le tenebre oscuravano i tratti del viso, ma riusciva a intuire la forma della testa, sempre che si potesse chiamare così... era più simile a una patata deforme. Emma era in apnea, non riusciva più a respirare. Poco sotto il suo mento, quella cosa si fermò, smise di avanzare. Passarono pochi secondi e l'ombra alzò quella che sembrava essere la sua mano. Dita sottili e prive di unghie scivolarono sul collo di Emma: la paura le si congelò in gola, impedendo che anche un solo filo d'aria potesse passare. Le dita d'ombra continuarono a salire, sfiorarono le labbra spalancate di Emma, accarezzarono i suoi denti, lambirono per un istante la sua lingua. E in quell'istante Emma sentì il sapore di quella creatura: era come carne andata a male, era come se un viscido verme le si fosse intrufolato in bocca. Poi le dita ripresero il loro cammino, uscirono dalla bocca e salirono verso gli occhi. Emma le vide ondeggiare a un palmo dal suo naso, mentre la sua vista si faceva tremolante e incerta, stava per svenire. Due fetide e scarne dita poggiarono sulle sue palpebre. Le chiusero, mentre un sussurro incomprensibile scivolava nelle sue orecchie.

Emma riaprì gli occhi: era giorno, il sole illuminava la stanza. Balzò fuori dal suo letto. Si guardò intorno con gli occhi fuori dalle orbite, terrorizzata, sputando fuori dalla sua gola quel sapore di carne marcia che non c'era più.

"Era un sogno, era solo un sogno" continuò a ripeterselo, mentre tastava il letto alla ricerca di qualche prova che le desse la certezza che quella cosa non era altro che un parto della sua mente. Ma quando sollevò lo sguardo sul muro di fianco al suo letto, ogni sua certezza vacillò.


***

Ed eccovi servito il capitolo più lungo fino ad ora e spero anche quello più inquietante! 

Buon weekend... e pregate che un'ombra non vi venga a trovare mentre dormite!  XD

Come sempre, grazie mille a tutti quelli che hanno letto fin qui! Fatemi sapere cosa ne pensate con un commento, una stella o un messaggio ;)

La domanda di questo capitolo è:

AVETE MAI AVUTO LA SENSAZIONE DI SENTIRVI OSSERVATI, MENTRE ERAVATE SOLI?

Vi ricordo che Knock verrà a aggiornato ogni martedì e venerdì

Grazie ancora e a presto!


Nel prossimo episodio:

"Per troppe cose sembrava non esserci spiegazione..."


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