26. TLIN (seconda parte)

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Naomi riaprì gli occhi.

Sentì il freddo, ancor prima della paura e dello sconforto. Era scalza. I suoi piedi affondavano in una poltiglia fangosa mentre dall'alto la pioggia cadeva a dirotto, martellando la sua nuca e la sua pelle, incollando i vestiti al suo corpo. Non avrebbe saputo dire dove fosse. Tutto intorno a lei era buio, tranne il punto in cui affondava i suoi piedi, illuminati da una luce pallida proveniente da chissà dove. E in lontananza, una fiammella s'accendeva e si spegnava, come un richiamo. Ricordava il vuoto, la caduta e poi più niente. 

La sua pelle bagnata vibrò, forse per il freddo, forse per la paura che le attanagliava il cuore. 

Doveva finire tutto: con la morte doveva finire tutto... e invece eccola lì, impaurita come sempre. 

Portò un piede in avanti, in un timido passo. La luce innaturale che le illuminava i piedi la seguì. 

Camminò. Il terreno non cambiava mai. Fango e acquitrini. L'unico punto di riferimento era quella luce lontana. Naomi ci camminò contro.

Era l'aldilà? L'inferno o il paradiso? Cosa si era meritata con quel volo? O forse stava solo sognando?

La luce in lontananza cominciò a farsi più grande, ad acquisire una forma. Un quadrato... no... una casa: ecco cos'era. Naomi camminò ancora.

Le gambe erano stanche. Da quanto era in cammino? Non ne aveva idea, ogni passo sembrava uguale all'altro, sembrava durare un'eternità. Né aveva idea di quanta strada avesse percorso. La casa in lontananza, però, andava definendosi. Aveva un solo piano e due finestre e una porta tra loro.

Era esausta. Non riusciva più a camminare. Le sue gambe si afflosciarono come due sacchi vuoti. La casa era ancora lontana. La osservò e la vide cambiare: ora tra le finestre c'era una terza luce. La porta era stata aperta e la sagoma di un uomo o di una donna si stagliava sull'uscio. Non era che una macchia lontana, eppure Naomi ebbe la certezza che la stesse osservando... forse, aspettando. Doveva arrivare a quella casa, alla sua luce, all'uomo o alla donna che era lì. Provò ad alzarsi, ma le sue gambe protestarono e si rifiutarono di obbedire.

Un lampo.

Tutto intorno a lei si era illuminato per un istante.

Ora Naomi correva a rotta di collo. Perché sapeva che non era sola, perché sapeva delle cose che si nascondevano nel buio.

Cadaveri putrefatti, eppure dritti sulle loro gambe. Teste ciondolanti che la guardavano di sbieco. Budella vomitate fuori da bocche sdentate. Topi che si facevano strada in carni avariate, con le loro testoline pelose che sbucavano fuori dall'orbita vuota di un occhio o da uno stomaco pazientemente forato dalle loro zanne aguzze. Intorno a lei, c'era un'esercito di cadaveri. Vivi, silenziosi, migliaia di corpi che avrebbero dovuto essere tre metri sotto terra e che invece camminavano lentamente verso di lei. 

Naomi continuò a correre. Il fianco le doleva. Inciampò. Si rialzò. Corse ancora. Urtò contro qualcosa. Uno di quei cadaveri l'aveva raggiunta. Provò ad afferrarla, e per un soffio non ci riuscì: solo perché aveva dimenticato di non avere una mano per farlo, ma un moncherino con un osso spezzato al posto di essa.

La casa era più vicina. Ora appariva per quel che era: una catapecchia fatta di legna marcia. Sarebbero riuscite quelle quattro assi che a malapena si reggevano in piedi a tener fuori quelle cose?

Naomi decise che non era il tempo di cercare risposte, ma solo di correre. 

E lo fece.

Quello sulla porta era un uomo. Un uomo vecchio, il più vecchio che Naomi avesse mai visto in vita (e in morte) sua. Le teneva la porta aperta e a grandi gesti le diceva di tuffarsi dentro.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Dec 12, 2018 ⏰

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