15. Natale 1998

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Serena Bishop si risvegliò e il suo primo pensiero fu guardarsi il polso, per controllare l'ora.

Ma il suo polso era vuoto. Restò ferma a pensare a dove avesse lasciato l'orologio. Il pensiero fisso della voglia di farsi, lo stomaco che le bruciava e quel pianto ininterrotto che veniva dai piedi del letto su cui era sdraiata non l'aiutavano di certo a concentrarsi.

Ci mise un po', ma alla fine riuscì a connettere gli eventi e a ricordare. L'orologio l'aveva venduto. Quello stronzo al banco dei pegni le aveva dato cinquanta dollari per un orologio che ne valeva almeno quattromila. "Prendere o lasciare", le aveva detto, guardando con un ghigno gli occhi di Serena che lacrimavano per l'astinenza. Non aveva il tempo di andarsene in giro in quella grande città alla ricerca di un'offerta migliore, aveva bisogno di soldi quanto prima e di quel che i soldi potevano procurarle. Voleva dire che il giorno dopo ne avrebbe rubato un altro, come già aveva fatto tante altre volte.

Se ne stava sdraiata sul letto, con la stanza che le girava intorno, chiedendosi quando sarebbe arrivato il tizio con la roba. Il bambino ai suoi piedi piangeva.

«E stattene un po' zitto!» con un piede diede uno spintone al bambino, lamentandosi più che parlando... e quello pianse ancora di più.

Per un attimo, ebbe un accenno di rimorso, un leggero vuoto allo stomaco dovuto al senso di colpa, ma passò presto. Non amava quel bambino, non l'aveva mai voluto. Il suo stesso corpo lo rifiutava. Dai suoi seni, non usciva una goccia di latte. Forse era quello il motivo per cui piangeva, perché era il secondo giorno che non mangiava. O forse piangeva perché quel bilocale freddo e fetido non aveva nemmeno uno straccio di culla: quando gli andava bene dormiva ai piedi della madre, quando gli andava male dormiva anche per terra.

Serena urlò, rabbiosa e bisognosa di farsi. Voleva capire che ore fossero, per quanto tempo doveva resistere ancora. Si alzò dal letto e barcollò fino alla finestra, per guardare fuori. Il vicolo su cui affacciava la sua stanza era deserto e buio, immerso in un silenzio interrotto solo da un gatto che gironzolava tra i bidoni dell'immondizia. Il tizio aveva detto che sarebbe passato a mezzanotte. Ma da quel che poteva saperne, l'ora era già passata o forse mancava ancora un mucchio. Poi un pensiero la sorprese: forse era già venuto quando dormiva e lei non aveva sentito bussare alla porta. 

"Ultimo treno cara, ti tocca aspettare domani o scendere in strada" 

Quella voce che la sbeffeggiava era nella sua testa. La ritrovava sempre lì, ogni volta che si riduceva in quello stato, che il bisogno di farsi prendeva il sopravvento.

Scendere in strada. Sapeva dove andare a comprare la roba, non era quello il problema. Il problema era quel bambino. Non lo amava, non lo aveva mai voluto, eppure qualcosa dentro di lei, che giaceva sul fondo dei suoi sentimenti, le impediva di lasciarlo da solo. Qualcuno avrebbe detto che era istinto materno, qualcun altro che era solo una stupida. Ma finché quel minimo sentimento di protezione sarebbe prevalso, lei non avrebbe avuto la sua roba. Perché non poteva portarselo dietro, quel sacchetto di carne di due mesi che non faceva che piangere, avrebbe attirato troppi sguardi e alla gente di cui lei aveva bisogno gli sguardi non piacevano... non l'avrebbero nemmeno fatta avvicinare con quel coso tra le braccia.

Guardò il bambino che continuava a piangere e sbattere i pugnetti e le gambine nell'aria. Doveva pensare a una soluzione.

«Smettila!» urlò Serena, contro il bambino. Se piangeva non riusciva a pensare e se non pensava non le sarebbe venuto nulla in mente... o meglio, nient'altro...

Si strinse la testa tra le mani. 

"Quante altre volte si sarebbe ritrovata in quella situazione? Come poteva crescerlo in quelle condizioni? Che razza di vita gli avrebbe mai potuto dare?"

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