7. Play

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«Io non ci vedo nulla di strano, è solo un muro» sentenziò Rita, fissando la parete della cameretta di Emma.

Certo, con la luce del sole, in compagnia e finalmente di nuovo in possesso del controllo del proprio corpo, anche Emma dovette ammetterlo: quello sembrava solo un muro come tanti. Eppure, era difficile convincersi che quanto avesse visto poco prima e quel che aveva vissuto nella notte fosse solo il frutto della sua fantasia. 

Crocrò 

Al risveglio, aveva alzato gli occhi sulla parete e lì dove di solito, al mattino, c'erano le ombre proiettate dai rami del grosso albero in giardino, aveva letto quella parola, come se le ombre dei rami si fossero contorte per formarla: aveva battuto gli occhi, incredula, e quando li aveva riaperti la parola era scomparsa, sostituita dalle ombre di tutti i giorni. Ma le era rimasto un brivido a percorrerle la schiena e una curiosità sospesa, per quella parola familiare ma senza senso.  

«Sei sotto stress» le disse Rita passandole un braccio intorno al collo, avvolgendola nel suo affetto. «Hai fatto solo un brutto sogno»

«Ti dico che non potevo muovermi e che c'era qualcuno nell'ombra, era tutto così reale!»

«Non farla tanto lunga, ti si è solo addormentata la gamba e per quanto riguarda l'ombra...» Rita sorrise, stava pensando a qualcosa «ricordi quando abbiamo visto quel film al cinema? Quello della strega? Tornando a casa avrai visto almeno diciotto assassini e quaranta ombre e sentito passi ovunque» Rita cacciò un pacchetto di sigarette dalla borsetta. «La verità, Emma, è che sei sempre stata una fifona!»

«Sei pazza, non l'accendere qui dentro!» d'un tratto, la principale preoccupazione di Emma non erano più ombre e presenze, ma qualcosa di molto più concreto come la reazione di sua madre se avesse sentito puzza di fumo nella sua stanza.

«Vedi che sei una fifona?!» la rimbeccò Rita, rificcando il pacchetto di sigarette nella sua borsetta. «Datti una mossa, su!» La incitò Rita, quasi trascinandola verso la porta della sua stanza, «finisce che arriviamo tardi e ci perdiamo tutti quelli più carini.»

Emma non osò replicare, raccolse la sua borsa e seguì l'amica che era già fuori dalla camera. Prima di uscire anche lei, Emma osservò per un'ultima volta quella parete che le incuteva tanto timore. Già, aveva ragione Rita, era solo una fifona: l'ombra, i rumori erano solo il frutto della sua fantasia. Quanto avrebbe voluto essere come Rita, coraggiosa, spensierata, bella. Invece, era solo Emma Finner: codarda, fifona, insignificante... e per finire una pessima amica. Quell'ultimo pensiero era però per Naomi.

«Le dita nella bocca, il loro sapore...» Emma lo sussurrò appena, mentre ancora pensava a Naomi.

«Cosa hai detto?» chiese Anna, interrompendo un motivetto che stava canticchiando.

«Nulla... non ho detto nulla» mentì Emma, mentre ancora pensava a quel dettaglio che il semplice fatto di essere una fifona non poteva spiegare: come avrebbe potuto immaginarsi quel sapore, che quasi le pareva di poter sentire ancora attaccato alla sua lingua, al suo palato?


Ovattata: era questo il modo in cui Emma descrisse quella giornata a se stessa quando volse al termine. Erano state alla piscina, insieme a tutti quelli della loro età. Tutti erano felici, entusiasti per l'estate appena iniziata. I ragazzi erano tutti lì a pavoneggiarsi, a fare a gara a chi fosse il più forte, il più fico, il più divertente. E le ragazze invece se ne stavano lì, magre come chiodi, a prendere il sole; fingendo, con gli occhi nascosti da scure lenti da sole, di non fregarsene delle occhiate che i ragazzi lanciavano loro, borbottando di tanto in tanto e ridendo con complicità come se parlassero un linguaggio segreto comprensibile solo tra amiche. Quelli erano i suoi amici e le sue amiche, era da un po' che li frequentava, con loro scherzava, rideva, spettegolava, sorrideva, si divertiva e qualcuno, come quel Chris bello come il sole nel suo perenne sorriso, le faceva anche battere il cuore. Ma non quel giorno. Quel giorno le sembrava che tra lei e il mondo ci fosse una bolla invisibile, che la escludeva dagli altri, che non le permetteva di condividere la loro felicità, la loro spensieratezza. Se ne stette per tutto il tempo con un sorriso finto, vuoto e senza calore stampato sul volto, in mezzo agli altri e allo stesso tempo isolata, senza partecipare sul serio ad alcuna discussione, con la testa tra le nuvole, rispondendo sempre in maniera distratta ogni volta che qualcuno la interpellava: "eh?" "cosa" "hai detto qualcosa?" "dici a me?"

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