22. Istinti

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È un prodigio e spesso si finisce per dimenticarlo. Lo si dà per scontato. Ci si sveglia pensando, ci si addormenta pensando. I sogni stessi, probabilmente, non sono che una forma di pensiero, più libero, capace di esplorare territori di cui spesso la coscienza nega l'esistenza.

Ma il pensiero è un prodigio, un miracolo della natura. Che si ripete e si ripete, fino a darlo per scontato.

E basta poco per mandarlo gambe all'aria.  

Aprì gli occhi. Intorno a lei c'era il buio. E non riuscì a pensare.

Troppe sensazioni, troppo forti. Fame, sete, freddo, sporco. Paura, paura e ancora paura. Non aveva mai avuto tanta paura. Quel buio era estraneo eppure familiare, come una parola detta tante volte e che ora si è piazzata lì sulla punta della lingua e non vuole saperne di venir fuori. Mosse le gambe: era senza forze.
Si tastò le braccia: erano magre, scheletriche.
Si toccò i capelli: sfibrati, deboli, insolitamente lunghi e disordinati.

Tutto ciò le s'impose nella mente senza alcun processo di pensiero. Era come se le idee piombassero nella sua testa troppo veloci per seguirle, dritte al bersaglio come pugni sul muso che la facevano barcollare colpo dopo colpo. "Dov'era?" riuscì a formularla appena questa domanda nella sua testa. Non faceva in tempo a riflettere su nulla che il pensiero già sfumava. Era a corto di forze, a un passo dalla morte. Era come se il suo corpo avesse rinunciato a tutti quegli "optional" che non poteva più permettersi di sostenere e si fosse ridotto al puro istinto, all'irrazionalità di chi vuole semplicemente sopravvivere un altro minuto ancora. E fu ciò che fece, provò a sopravvivere. Mosse le mani nel buio davanti a sé. Vi trovò un pavimento e non fu stupita di trovarlo, come se da qualche parte nella sua scatola cranica vi fosse una labile idea di dove fosse. E le mani, sempre guidate dall'istinto, da una conoscenza pregressa che non sapeva da dove tirava fuori, trovarono una ciotola. Le dita si immersero in un liquido. Bevve. Acqua! Bevve l'intera ciotola e salutò con un sospiro di sollievo la prima delle sue necessità che andava via. Ora che aveva un bisogno in meno, recuperò un pezzetto minuscolo della sua ragione. Era come se la sete e ogni altro bisogno fossero una pressa che tenevano stretto il suo cervello, fin quasi a spappolarlo. Ora che aveva bevuto, sentì la presa sul suo cervello allentarsi un po'. Qualcosa nell'ombra intorno a lei si mosse rapida e le sue mani scattarono guidate dall'istinto. Afferrarono quella cosa e la strinsero. La cosa si agitò tra le sue mani ed emise uno squittio di dolore. Poi toccò a lei urlare per il dolore: qualcosa di affilato le penetrò il dorso della mano, come un mucchietto di aghi aguzzi. Spalancò le mani e la cosa corse via, fetida e rapida. Era un topo, pensò mentre si massaggiava la mano che sanguinava e pulsava. Era cibo. Avesse avuto un altro po' di raziocinio sarebbe stata disgustata alla sola idea. Ma in quel momento l'istinto di sopravvivenza la faceva da padrone. L'istinto primordiale della cacciatrice che non vuole altro che sfamarsi. E quel topo, disgustoso o meno, era una preda, era cibo.  
Sentire la cena allontanarsi le aprì un vuoto nello stomaco, ancor più grande di quel che già aveva. Doveva trovare quella bestiaccia. Tirò su col naso per sentire il fetore di quel viscido essere. La sua puzza era nell'aria, insieme a un alone di paura. Seguì la scia del tanfo, gattonando sul pavimento. A ogni suo movimento, il topo fuggiva nella direzione opposta, più veloce di quanto lei sarebbe mai stata. Con quel buio, non l'avrebbe mai preso.

Si mise a sedere, sconfortata, con la testa vuota che vagava in più direzioni senza giungere a nessun approdo. Si guardò intorno, scrutando il buio. Dalla sua breve caccia al topo, aveva intuito che lo spazio era ristretto e senza finestre, forse era uno scantinato. Prese allora il sopravvento un altro istinto: la speranza. Forse qualcuno poteva tirarla fuori da quel luogo, sconosciuto e familiare al tempo stesso. 

Urlò.

«C'è qualcunooooo?»

O almeno fu ciò che provò a dire... perché dalla sua bocca non uscì altro che un lamento scomposto. C'era qualcosa di strano nella sua bocca, qualcosa che non andava. Con le dita, si tastò le labbra intorpidite dal prolungato mutismo. Lì era tutto a posto. Provò a urlare di nuovo e anche questa volta uscì fuori solo un inutile sommesso lamento. Si tastò i denti e anche quelli erano esattamente come dovevano essere. Si ficcò un dito nella bocca: lì c'era qualcosa che non tornava. Non aveva la lingua, ma solo un moncherino. Nella mente balenò la paura e un ricordo dimenticato, fatto di sangue e dolore. Ed ecco un nuovo istinto, il più primordiale di tutti: la paura. Venne da lontano, da quel ricordo che non sembrava suo eppure così orribilmente dettagliato, così forte e capace di farla tremare, le risuonò dentro come un'eco e si espanse in tutto il suo essere: la mano di un uomo la costringeva con la forza ad aprire la bocca e poi una lama si faceva strada, superando la resistenza dei denti; sangue; sputava; un pezzo di carne molliccio e rosso, la sua lingua, cadeva sul pavimento di quella cantina, nel ricordo leggermente illuminata.

Tremava come una foglia a vento, mentre si rendeva conto dell'estraneità di quel corpo: lei non era così magra, lei non era così debole, lei aveva una lingua. Lei era... quel semplice pensiero rimase sospeso nella sua mente confusa. Ci riprovò. Lei era... e si accorse che la sua mente non era semplicemente confusa: era spaccata. Chi era lei? Un pezzetto della sua mente, piccolo, un'ombra di pensiero rispondeva Serena Bishop. L'altro pezzo della sua mente, quello cosciente, quello che ora un po' alla volta si liberava dal dominio degli istinti e cominciava a ragionare rispondeva: Emma Finner. Sì, lei era Emma Finner e l'altro nome non sapeva nemmeno da dove fosse sbucato fuori. Così come non sapeva da dove fosse sbucata fuori quella cantina e quel corpo tanto debole. Un altro brivido la scosse. Emma gattonò fino alla parete e reggendosi si rimise in piedi. Una semplice azione che le costò più fatica di quanto doveva. Voleva uscire di lì, era la prima cosa da fare. La sua mente stava ricominciando a funzionare, doveva elaborare un piano.

Ma bastò un istante e l'istinto prese di nuovo il sopravvento.

Un istante e ogni capacità di pensiero andò a farsi benedire.

In alto si aprì una porta.

Un fascio di luce illuminò una rampa di scale.

Una figura si stagliava controluce.

Ed eccolo tornare, il più primordiale degli istinti: la paura.

Come Emma non ne aveva mai provata.


***

Scusate il ritardo!

Ieri è stato il mio compleanno e ho passato il tempo a festeggiarlo XD

Allora che ve ne pare di questo capitolo? Cosa accadrà secondo voi?

Se vi è piaciuto, fatemelo sapere con un commento, una stella o un messaggio :)

E come sempre, grazie mille per aver letto anche questo capitolo, siete fantastici! 

A sabato prossimo!

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