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Dicembre 1916, San Pietroburgo.

Han e Minho avevano fatto colazione insieme poche volte in quel mese, poiché i turni di guardia del soldato permettevano solo poche occasioni.

La routine era sempre la stessa: il moro lottava contro la folla accalcata ai tavoli, prendeva del cibo per entrambi e fuggivano via il prima possibile.

La loro stanza segreta era testimone di infinite chiacchiere: Han ormai si era sciolto, o quasi, e aveva iniziato a raccontare ad Minho un po' di sé stesso. Gli aveva raccontato che aveva ventidue anni, che era nato in corea dove aveva vissuto per circa sedici anni, prima di diventare discretamente famoso come pianista. Gli aveva raccontato ancora che la sua era una famiglia nobile e ciò gli aveva permesso di evitare la leva militare. Aveva una madre e quattro sorelle che amava più di sé stesso alle quali portava ogni compleanno tanti regali per farsi perdonare dell'assenza durante l'anno, ma comunque si sentiva in colpa. Gli aveva anche confessato che odiava i gatti e che la granduchessa Anastasija lo metteva in soggezione.

Di Minho invece aveva scoperto che aveva ventitre anni, che a sedici era stato costretto ad arruolarsi e che era stato mandato in guerra a diciotto. "La guerra non finirà mai, esiste da sempre e continuerà ad esserci." aveva detto amaramente, con lo sguardo perso nel vuoto. Han aveva scoperto ancora che il soldato odiava le minestre, che avrebbe voluto provare il cibo occidentale e che quando si rattristava i suoi occhi diventavano verdi scuro.

Han aveva sempre conosciuto soltanto due colori: il bianco e il nero. Il bianco, come i tasti del pianoforte ovviamente, ma anche della neve che cadeva giù in continuazione, ricoprendo tutto ciò che incontrava, dagli alberi del giardino del Palazzo alle case dei contadini. Il bianco degli argini del fiume Neva, il bianco dei muri che caratterizzavano l'edificio, il bianco dei vestiti delle granduchesse che erano sue allieve.

E poi c'era il nero. Han il nero non lo aveva mai capito: sul piano musicale, era costretto ad usare i tasti neri. E fin lì tutto semplice, era il suo campo, sapeva in che dose somministrare quel nero alla gente.

Ma quando si trattava del nero dentro di sé, Han proprio non si raccapezzava. La sua anima era un puzzle fatto di paure, continue preoccupazioni che si incastravano fra di loro formando un unico manto di angoscia nero. Il giovane avrebbe voluto tanto sfilarsi quel velo che lo copriva, che lo rendeva così fragile, ma non ci riusciva perché il freddo intorno a lui era troppo forte.

Non aveva nessuno con cui potersi confidare, da cui cercare riparo e calore. In fondo, Han sotto quel manto nero, si sentiva protetto. Forse sbagliato, sì, ma comunque al sicuro in quell'involucro di silenzi e fobie.

Ma da quando aveva conosciuto Minho, qualcosa stava cambiando. Non esistevano più solo il bianco e nero, ma tanti altri colori, belli e brutti, che prima d'allora non aveva mai notato.

C'era il verde chiaro, ad esempio. Un verde splendente, bellissimo che si illuminava ancora di più con i riflessi del colore della neve. Han iniziava ad amare quel colore, un po' perché gli dava pace e serenità, un po' perché era comunque il colore della divisa del moro.

C'era il verde scuro, un po' più triste del suo omonimo chiaro, poiché a Han ricordava la divisa militare e quindi di conseguenza la guerra. La guerra era verde scuro, come l'ammasso di soldati dai cuori spaventati e i fucili puntati. Verde scuro, come le foglie macchiate del sangue di uomini che perdevano la vita per un'ideale che non apparteneva a loro. Verde scuro, come le pianure delle cartine che aveva visto una volta nella stanza dello zar che rappresentavano i luoghi dell'Europa divenuti nemici.

C'era il rosa chiaro della pelle di Minho. Pallido, delicato, morbido che Han avrebbe voluto toccare senza mai fermarsi, facendo scorrere le sue dita su qualsiasi lembo rosa dell'altro ragazzo. Sfiorandolo leggermente o magari anche facendo pressione, per imprimere su di essa il suo marchio invisibile. Avrebbe voluto assaggiarla, un pensiero che teneva nascosto negli antri sperduti della sua mente. Con le sue labbra, avrebbe voluto assaporarla e gustarne ogni minimo particolare, come si fa con i piatti più prelibati.

Han, grazie ad Minho, aveva conosciuto un sacco di colori.

Eppure ce n'era uno che gli faceva particolarmente paura.

Il rosso.

Rosso come il sangue di millenni di storia russa, di guerre e battaglie inutili che avevano sconvolto milioni di vite. Rosso come le esplosioni delle bombe a mano, delle urla dei soldati e delle madri a casa alla notizia dei loro figli morti.

Rosso come quell'entità che, a detta dello zar, stava intaccando l'impero: il comunismo.

Rosso come le labbra carnose di Minho, da mordere e succhiare fino allo sfinimento, e ancora dormire su quelle labbra, sognarci e magari svegliarsi col sapore del riccio dentro la bocca e dentro le ossa, come il migliore dei veleni.

E Han non era sicuro di voler permettere a quelle labbra di strappare a morsi il velo nero che lo avvolgeva.

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